Sicilia bedda e amata,cantata e disprizzata...

  • A proposito degli alieni....

    Il saggio dal titolo "A proposito degli alieni....", di Francesco Toscano e Enrico Messina

    Sinossi: Fin dalla preistoria ci sono tracce evidenti del passaggio e dell’incontro tra esseri extraterrestri ed esseri umani. Da quando l’uomo è sulla Terra, per tutto il suo percorso evolutivo, passando dalle prime grandi civiltà, all’era moderna, sino ai giorni nostri, è stato sempre accompagnato da una presenza aliena. Lo dicono i fatti: nei reperti archeologici, nelle incisioni sulle rocce (sin qui rinvenute), nelle sculture, nei dipinti, in ciò che rimane degli antichi testi, sino ad arrivare alle prime foto e filmati oltre alle innumerevoli prove che oggi con le moderne tecnologie si raccolgono. Gli alieni ci sono sempre stati, forse già prima della comparsa del genere umano, e forse sono loro che ci hanno creato.

  • Gli antichi astronauti: dèi per il mondo antico, alieni per quello moderno.

    Il saggio dal titolo "Gli antichi astronauti: dèi per il mondo antico, alieni per quello moderno.", di Francesco Toscano

    Sinossi: Milioni di persone in tutto il mondo credono che in passato siamo stati visitati da esseri extraterrestri. E se fosse vero? Questo libro nasce proprio per questo motivo, cercare di dare una risposta, qualora ve ne fosse ancora bisogno, al quesito anzidetto. L`archeologia spaziale, o archeologia misteriosa, è definibile come la ricerca delle tracce, sotto forma di particolari reperti archeologici o delle testimonianze tramandate nel corso dei millenni, di presunti sbarchi sulla Terra di visitatori extraterrestri avvenuti all’alba della nostra civiltà.

  • Condannato senza possibilità d'appello

    Il romanzo breve dal titolo "Condannato senza possibilità d'appello.", di Francesco Toscano

    Sinossi: Le concezioni primitive intorno all`anima sono concordi nel considerare questa come indipendente nella sua esistenza dal corpo. Dopo la morte, sia che l`anima seguiti a esistere per sé senza alcun corpo o sia che entri di nuovo in un altro corpo di uomo o d`animale o di pianta e perfino di una sostanza inorganica, seguirà sempre il volere di Dio; cioè il volere dell’Eterno di consentire alle anime, da lui generate e create, di trascendere la vita materiale e innalzarsi ad un piano più alto dell’esistenza, imparando, pian piano, a comprendere il divino e tutto ciò che è ad esso riconducibile.

  • L'infanzia violata, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "L'infanzia violata", di Francesco Toscano

    Sinossi: Dovrebbero andare a scuola, giocare, fantasticare, cantare, essere allegri e vivere un'infanzia felice. Invece, almeno 300 milioni di bambini nel mondo sono costretti a lavorare e spesso a prostituirsi, a subire violenze a fare la guerra. E tutto ciò in aperta violazione delle leggi, dei regolamenti, delle convenzioni internazionali sui diritti dell'infanzia. La turpe problematica non è lontana dalla vostra quotidianità: è vicina al luogo in cui vivete, lavorate, crescete i vostri bambini. Ad ogni angolo dei quartieri delle città, dei paesi d'Italia, è possibile trovare un'infanzia rubata, un'infanzia violata.

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "I ru viddrani", di Francesco Toscano

    Sinossi: Non è semplice per un vecchietto agrigentino rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, che consta di svariati grammi di oro e di argento, che la sua badante rumena gli ha rubato prima di fuggire con il suo amante; egli pensa, allora, di rivolgersi a due anziani suoi compaesani che sa essere in buoni rapporti con il capo mafia del paesino rurale ove vive, per poter rientrare in possesso del maltolto. A seguito della mediazione dei "ru viddrani", Don Ciccio, "u pastranu", capo mafia della consorteria mafiosa di Punta Calura, che ha preso a cuore la vicenda umana di Domenico Sinatra, incarica i suoi sodali di mettersi sulle tracce della ladruncola e di far in modo che ella restituisca la refurtiva all`anziano uomo. Qualcosa, però, va storto e fra le parti in causa si acuisce un'acredine che amplifica l'entità del furto commesso, tanto che nel giro di pochi anni si arriva all`assassinio di Ingrid Doroteea Romanescu, la badante rumena resasi autrice del furto in questione.

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il fantasy dal titolo "E un giorno mi svegliai", di Francesco Toscano

    Sinossi: "E un giorno mi svegliai" è un fantasy. Il personaggio principale del libro, Salvatore Cuzzuperi, è un impiegato residente nella provincia di Palermo che rimane vittima di un'esperienza di abduction. Il Cuzzuperi vivrà l'esperienza paranormale del suo rapimento da parte degli alieni lontano anni luce dal pianeta Terra e si troverà coinvolto nell'aspra e millenaria lotta tra gli Anunnaki, i Malachim loro sudditi, e i Rettiliani, degli alieni aventi la forma fisica di una lucertola evoluta. I Rettiliani, scoprirà il Cuzzuperi, cercano di impossessarsi degli esseri umani perché dotati di Anima, questa forma di energia ancestrale e divina, riconducibile al Dio Creatore dell'Universo, in grado di ridare la vita ad alcune specie aliene dotate di un Dna simile a quello dell'uomo, fra cui gli stessi Rettiliani e gli Anunnaki. Il Cuzzuperi perderà pian piano la sua umanità divenendo un Igigi ammesso a cibarsi delle conoscenze degli "antichi dèi", ed infine, accolto come un nuovo membro della "fratellanza cosmica".

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "I ru viddrani", di Francesco Toscano

    Sinossi: Non è semplice per un vecchietto agrigentino rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, che consta di svariati grammi di oro e di argento, che la sua badante rumena gli ha rubato prima di fuggire con il suo amante; egli pensa, allora, di rivolgersi a due anziani suoi compaesani che sa essere in buoni rapporti con il capo mafia del paesino rurale ove vive, per poter rientrare in possesso del maltolto. A seguito della mediazione dei “ru viddrani”, Don Ciccio, “ù pastranu”, capo mafia della consorteria mafiosa di Punta Calura, che ha preso a cuore la vicenda umana di Domenico Sinatra, incarica i suoi sodali di mettersi sulle tracce della ladruncola e di far in modo che ella restituisca la refurtiva all`anziano uomo. Qualcosa, però, va storto e fra le parti in causa si acuisce un’acredine che amplifica l’entità del furto commesso, tanto che nel giro di pochi anni si arriva all`assassinio di Ingrid Doroteea ROMANESCU, la badante rumena resasi autrice del furto in questione.

  • Naufraghi nello spazio profondo, di Francesco Toscano

    Il romanzo di fantascienza dal titolo "Naufraghi nello spazio profondo ", di Francesco Toscano

    Sinossi: In un futuro distopico l’umanità, all’apice della sua evoluzione e prossima all’estinzione, sarà costretta, inevitabilmente, a lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, alla ricerca di un pianeta alieno in cui poter vivere, sfruttando le conoscenze del suo tempo. Inizia così l’avventura del giovane Joseph MIGLIORINI, di professione ingegnere, e di altri giovani terrestri, un medico, un geologo, un ingegnere edile, che, da lì a poco, a bordo di una navetta spaziale allestita dal loro Governo, sarebbero stati costretti a raggiungere il pianeta Marte, il “nostro vicino cosmico”, al fine di atterrare nei pressi del suo polo nord ove, anni prima, dei robot costruttori avevano realizzato una stazione spaziale permanente, denominata “New Millenium”; tutto questo affinché parte dell’umanità sopravvissuta agli eventi nefasti e apocalittici potesse prosperare su quella landa desolata, tanto ostile alla vita in genere, giacché ritenuta unico habitat possibile e fruibile ai pochi sopravvissuti e alla loro discendenza.

  • Malacarne, di Francesco Toscano

    Libro/E-book: Malacarne, di Francesco Toscano

    Sinossi: Nella primavera dell'anno 2021 a Palermo, quando la pandemia dovuta al diffondersi del virus denominato Covid-19 sembrerebbe essere stata sconfitta dalla scienza, malgrado i milioni di morti causati in tutto il mondo, un giovane, cresciuto ai margini della società, intraneo alla famiglia mafiosa di Palermo - Borgo Vecchio, decide, malgrado il suo solenne giuramento di fedeltà a Cosa Nostra, di vuotare il sacco e di pentirsi dei crimini commessi, così da consentire alla magistratura inquirente di assicurare alla giustizia oltre sessanta tra capi e gregari dei mandamenti mafiosi di Brancaccio, Porta Nuova, Santa Maria Gesù. Mentre Francesco Salvatore Magrì, inteso Turiddu, decide di collaborare con la Giustizia, ormai stanco della sua miserevole vita, qualcun altro dall'altra parte della Sicilia, che da anni ha votato la sua vita alla Legalità e alla Giustizia, a costo di sacrificare sé stesso e gli affetti più cari, si organizza e profonde il massimo dell'impegno affinché lo Stato, a cui ha giurato fedeltà perenne, possa continuare a regnare sovrano e i cittadini possano vivere liberi dalle prevaricazioni mafiose. Così, in un turbinio di emozioni e di passioni si intrecciano le vite di numerosi criminali, dei veri e propri Malacarne, e quella dei Carabinieri del Reparto Operativo dei Comandi Provinciali di Palermo e Reggio di Calabria che, da tanti anni ormai, cercano di disarticolare le compagini mafiose operanti in quei territori. Una storia umana quella di Turiddu Magrì che ha dell'incredibile: prima rapinatore, poi barbone e mendicante, e infine, dopo essere stato "punciutu" e affiliato a Cosa Nostra palermitana, il grimaldello nelle mani della Procura della Repubblica di Palermo grazie al quale potere scardinare gran parte di quell'organizzazione criminale in cui il giovane aveva sin a quel momento vissuto e operato.

  • NAUFRAGHI NELLO SPAZIO PROFONDO : I 12 MARZIANI, GLI ULTIMI SUPERSTITI DELLA SPECIE UMANA , di Francesco Toscano

    Libro/E-book: NAUFRAGHI NELLO SPAZIO PROFONDO : I 12 MARZIANI, GLI ULTIMI SUPERSTITI DELLA SPECIE UMANA,di Francesco Toscano

    Sinossi: In un futuro distopico l’umanità, all’apice della sua evoluzione e prossima all’estinzione, sarà costretta, inevitabilmente, a lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, alla ricerca di un pianeta alieno in cui poter vivere, sfruttando le conoscenze del suo tempo. Inizia così l’avventura del giovane Joseph MIGLIORINI, di professione ingegnere, e di altri giovani terrestri, un medico, un geologo, un ingegnere edile, che, da lì a poco, a bordo di una navetta spaziale allestita dal loro Governo, sarebbero stati costretti a raggiungere il pianeta Marte, il “nostro vicino cosmico”, al fine di atterrare nei pressi del suo polo nord ove, anni prima, dei robot costruttori avevano realizzato una stazione spaziale permanente, denominata “New Millenium”; tutto questo affinché parte dell’umanità sopravvissuta agli eventi nefasti e apocalittici potesse prosperare su quella landa desolata, tanto ostile alla vita in genere, giacché ritenuta unico habitat possibile e fruibile ai pochi sopravvissuti e alla loro discendenza. Nel giro di pochi anni, pur tuttavia, a differenza di quanto auspicatosi dagli scienziati che avevano ideato e progettato la missione Marte, l’ingegnere MIGLIORINI e la sua progenie sarebbero rimasti coinvolti in un’aspra e decennale guerra combattuta da alcuni coloni di stanza sul pianeta Marte e da altri di stanza sulla superficie polverosa della nostra Luna, per l’approvvigionamento delle ultime materie prime sino ad allora rimaste, oltre che per l’accaparramento del combustibile, costituito da materia esotica e non più fossile, di cui si alimentavano i motori per viaggi a velocità superluminale delle loro superbe astronavi; ciò al fine di ridurre le distanze siderali dello spazio profondo e al fine di generare la contrazione dello spazio-tempo per la formazione di wormhole, ovvero dei cunicoli gravitazionali, che avrebbero consentito loro di percorrere le enormi distanze interstellari in un batter di ciglia...

sabato 20 novembre 2010

Il Palazzo Reale di Palermo. Storia di un antico monumento. Guglielmo I detto il Malo, il sovrano dedito all'ozio e gli altri sovrani Normanni. Parte terza.

Ruggero II in un mosaico presso la Chiesa della Martorana di Palermo
20 Novembre 2010.

Morto Ruggero II nel 1154, restò legittimo erede del regno Guglielmo, suo terzo genito, essendo già morti gli altri eredi al trono, Anfuso nel 1141,e Ruggero duca di Puglia nel 1145. Aveva regnato ventiquattro anni e aveva sottomesso tutte le terre che si bagnano nel Mediterraneo fino ad Algeri.

Guglielmo è passato alla storia per essersi abbandonato all'ozio, a tal grado di cattività, e di tristezza pervenne, che si acquistò il sopranome di malo, trascurando così le cose del Regno, affidandone la gestione a persone di fiducia: tra queste Maione di Bari che egli nominò amiratus amiratorum (emiro degli emiri), una specie di primo ministro plenipotenziale. Dovette però presto affrontare una difficile situazione politica a causa della minaccia dell'impero germanico, portata dal Barbarossa, di quella dell'impero di Bisanzio portata da Manuele I Comneno e da quella del papato retto da Adriano IV. All'interno dovette anche affrontare le insidie dei baroni avversi all'assolutismo stabilito da Ruggero II.

Probabilmente debilitato da una malattia (o forse, come sostengono i suoi detrattori, distratto dalle mollezze di corte), trascurò inizialmente i pericoli e le minacce portate al suo regno.

Un suo contemporaneo, Romualdo da Salerno, lo descrive: " era un bell'uomo, di portamento maestoso, di corporatura robusta, di alta statura, altero e avido di onori; conquistatore per terra e per mare; nel suo regno, più temuto che amato. Pur preoccupandosi di accumulare ricchezze ne era restio nel dispensarle. Quelli che gli si mostravano fedeli innalzava all'opulenza ed agli onori; quelli che lo tradivano condannava al supplizio o bandiva dal regno. Assai scrupoloso nell'adempiere i suoi doveri religiosi, mostrava sempre un grande rispetto verso gli uomini di chiesa."

Questo suo scansare la politica e preferire la vita da soldato nonchè quella di ozio nei suoi casini di caccia del parco reale lo aveva portato a dare il più ampio spazio d'azione agli alti funzionari governativi fra i quali prediligeva un pugliese: Maione da Bari.

Il Fazello riferisce che in tutti i castelli,città e ville dell'isola mandò un bando, con il quale ordinava che ciascuno portasse all'erario del re tutto l'argento, e l'oro battuto e non battuto, ed in cambio di quello fece fare certe monete di corame, dove erano le sue armi , ed ordinò che quelle sole si usassero, e la pena di morte a chi le contrafacesse. Il panico si sparse per l'isola, ed i sudditi  correvano per consegnare i nobili metalli. Ciò malgrado  Guglielmo volle sperimentare se in effetti l'oro esistesse in Sicilia, e un uomo mandò in Palermo con un  generoso cavallo per venderlo uno scudo di oro in oro. Nessuno dei suoi sudditi, però, era in grado di comprarlo a quella condizione. Un nobile giovinetto però vago di aver quel destriere , andò alla sepoltura del padre , e disotterratolo gli cavò di bocca uno scudo di oro, che la madre gli aveva posto e cosi comprò il cavallo. Il re da ciò ben comprese , che non vi era oro in Sicilia, e credeva di aver così soddisfatto la sua avarizia. Ma questa a buon diritto é creduta dai critici una favola.

Guglielmo I non aveva ereditato alcuna delle qualità intellettuali e fisiche di suo padre, anzi sembrava rappresentare quella dei suoi avi dei tempi della conquista normanna. Aveva una struttura fisica da gigante dalla forza notevole, un gran coraggio in battaglia. Ma in politica era pressocchè una nullità. Nato nello splendore di tanta reggia, circondato di giovani donzelle latine, greche e musulmane, inclinò alle voluttà, in tempi che richiedevano saldo braccio e destrezza per superare le difficoltà risorgenti. Lento nell'azione, sembrava che provasse sempre difficoltà a prendere una decisione. Ma quando la prendeva la perseguiva con coerenza sino alle ultime conseguenze.

Niccolò Palmeri, (Termini Imerese, 10 agosto 1778 – Termini Imerese, 1837) che è stato un economista, storico e politico italiano, nella sua opera "Somma della storia di Sicilia, in 5 voll. Palermo : Dalla Stamperia di Giuseppe Meli, 1850", così scrisse di Guglielmo I:
"Ciò che veramente lo fece odiare dal suo popolo, fu l'avere innalzato alle prime dignità un tal di Majone da Bari, uomo scelleratissimo, affidandogli le redini del governo. Era questi figlio di un oliandolo.Maione fu  in pricinpio notaio di corte, poscia fu da Guglielmo fatto cancelliere , e finalmente grande ammiraglio. Colmo di grandissime ricchezze , venne, più che ogni altro principe della Sicilia, amato dal re. Era egli d' ingegno acutissimo , pronto alle imprese, facondo nel dire, simulatore, e dissimulatore di ogni cosa. Proclive alla libidine, gloriavasi di qualsiesi indecenza. Fornito di tali pessime doti dalla natura, ebbe agio nella corte di Guglielmo , come sviluppare quel germe pestifero. Infatti cattivatasi la benevoglienza del principe , diedesi ben presto ad ogni violenza , e crudeltà: e, geloso della gloria di chiunque , fece in maniera, che il re escludesse ogni altro principe, e in lui tutto confidasse. Per lo che concepì egli il disegno di arrivare a prendere il diadema reale. Era allora arcivescovo di Palermo un certo Ugone , uomo fazioso , inquieto , e bramoso di cose nuove. In lui Majone trovò un compagno , e confidandogli i suoi pensieri contro la persona del re, nessun motto fecegli della sua cupidigia. Majone dunque, e Ugone feronsi fratelli giurati, e determinarono di doversi far morire il re, onde essi nella minore età dei di lui figli., liberamente governassero. Laonde Ugone , per opera di Majone, facilmente divenne familiarissimo del re."

A quel tempo il regno era insidiato dai baroni pugliesi, che alla morte di Ruggero credevano di poterne scuotere il giogo, dai musulmani d'Africa, dal Papa, dal nuovo imperatore Federico Barbarossa, che riteneva le Puglie suo feudo, e dall'Imperatore greco.  In questo frangente Guglielmo cercò chi fosse capace di tanta soma, e lo trovò in Maione, barese, grande ingegno, eloquente, sagace, astuto, ambizioso, senza scrupoli. Anche la di lui moglie Margherita, figlia di Garcia IV Ramirez di Navarra, che si interessava alla politica molto più di lui, aveva spiccata ammirazione per questo Maione riconoscendogli tutte le qualità di un amministratore eccezionalmente abile e soprattutto fedele alla corona.

Maione aveva prestato servizio nello stato per 10 anni durante il regno di Ruggero II raggiungendo il grado di gran cancelliere, dopo essere stato assunto all'ufficio di notaro. Aveva accompagnato Giorgio d'Antiochia nelle imprese marittime.

Fu facile, perciò, per Guglielmo elevarlo ad "amiratus" (emiro) dopo che Filippo " di Mahdiyya" era stato giustiziato. Per la prima volta la carica di emiro (governatore, uomo più importante dello stato dopo il re) viene conferita ad un funzionario amministrativo separandola così da quella di comandante della flotta navale e scaricandola quindi di quell'eccesso di potere che aveva costituito un rischio più o meno latente in quanto era la massima carica governativa dello stato siciliano. Divenne, quindi, Grande Ammiraglio. Guadagnatosi l'animo di Guglielmo, e prese le redini del governo, intese abbattere prima e sopra ogni altra cosa la potenza dei baroni, ostacolo principale al potere di uno solo. Favorì per tanto e riempì la corte di paggi ed eunuchi musulmani, già numerosi, e cominciò ad allontanarne baroni e cavalieri, insinuando sospetti nell'animo del Re.


E poichè potente fra i baroni era Robeto di Basseville, cugino del Re, e da questo fatto conte di Lorotello, Maione fece credre che ambisse al trono; per cui Guglielmo, andato a Salerno, gli tolse lo stato, e si rifiutò di riceverlo. Il conte indispettito, intavolò secrete pratiche coi baroni pugliesi, col Papa Adriano IV, col Barbarossa e con l'Imperatore greco. La guerra cominciò nell'anno 1154. Guglielmo ordinò s'invadessero gli stati del Papa, e assedò Benevento. Il conte di Lorotello, seppe sottrasi all'arresto; non così Simone, conte di Policastro e Gran Contestabile, che chiamato dal Re per giustificarsi, fu per consiglio di Maione arrestato e imprigionato. Venuto intanto il Barbarossa a incoronarsi (1155), i baroni di Puglia insorsero; e salvo Salerno, Napoli e qualche altra città, ben presto tutte le Puglie si sottrassero al Re. La ribellione si propagò in Sicilia.

Nell'Ottocento la figura del Maione è stata purtroppo deformata in quella particolare ottica che la revisione romantica assurse per cercare dei precedenti storici alla lotta antiborbonica. Maione venne raffigurato come un arrivista privo di scrupoli, figlio di un mercante d'olio di Bari, assetato di potere, soprattutto dei deboli, ecc. ecc. Nella realtà Maione era figlio di uno dei più noti magistrati Baresi e la sua carriera nell'amministrazione dello stato altro non era che il naturale sbocco della sua attività nella quale era particolarmente preparato.  Maione fu assassinato per mano di Matteo Bonello, discendente di una delle più antiche casate normanne giunte in Italia al seguito di Roberto "il Guiscardo", privo di titolo nobiliare,  sarebbe dovuto divenire suo genero. L'assassinio, frutto di una congiura ardita da alcuni baroni locali che vedevano in lui un tiranno, si consumò il 10 novembre 1160 nei pressi di porta Sant'Agata "la guilla". In seguito la maggior parte della nobiltà feudale scoppiò in rivolta.

Guglielmo I, non potendo sedare la rivolta in quanto i 300 uomi della guarnigione non sarebbero bastati a contrastare  i ribelli, e non potendo attendere rinforzi, decise di appoggiare i rivoltosi, perlomeno formalmente, dando pubblico riconoscimento delle malefatte di Maione. Al suo posto nominò un triumvirato composto da Silvestro conte di Marsico, in rappresentanza della nobiltà feudale, Enrico Aristippo, suo precettore, ed uno degli alti prelati latini: Riccardo Palmer. 

Il Re riuscì a sedare la rivolta facendo arrestare i baroni. Matteo Bonello finì in carcere, accecato e torturato. Analoga sorte toccò ad alcuni baroni  pugliesi che Guglielmo fece punire crudelmente. Altri riuscirono a salvarsi rifugiandosi in Abruzzo. Soggiogate le Puglie, Guglielmo marciò su Benevento, dove era il Papa coi conti di Loretello e di Rupecanina. Ma il Papa trovò più conveniente patteggiare; Guglielmo venne a patti, e si dichiarò vassallo della Santa Chiesa per i domini della terraferma, e, diversamente dagli avi che avevano mantenuto l'indipendenza della Sicilia, se ne fece investire dal Papa (26 giugno 1156). Fu tra i patti promessa vita e libertà ai baroni riparatisi a Benevento, purchè uscissero dal regno; ma Guglielmo fece accecare, scudisciare gettere in orride carceri i conti di Alesa e Tarsio; al conte di Squillace furno cavati gli occhi e mozzata la lingua; più fortunato fu il conte di Policastro, che morì prima di essere arrestato. Gli stessi nipoti naturali del re, Tancredi e Guglielmo, furono presi e confinati dentro la reggia di Palermo. Con queste ed altre crudeltà,istigate da Maione, furono domati i baroni.

Dopo questi sforzi, tornato a Palermo, il Re si immerse negli ozi e nelle lascivie; il regno restò in balia del predetto triumvirato. Morì a quarantasei anni il 07 maggio del 1166. Gli successe il figlio dodicenne,  Guglielmo II, sotto la reggenza della regina Margherita e dei tre ministri. Si fecero per tre giorni le pompe funebri, ma dicono gli storici, che quelle che lo piansero sinceramente furono le donzelle musulmane. Lasciò il regno in disordine e minacciato. Ebbe soprannome di Malo, in confronto al suo successore. Prima della sua morte fece erigere un castello delizioso che chiamò Zisa.

Il Palmeri, nella suddetta opera, nel raccontare gli eventi verificatisi in quel tempo, riferiva in particolare:
"A portar quindi a compimento il concepito disegno, pensarono di doversi togliere d'innanzi tutti quei signori, che avessero potuto impedir loro ogni cosa. Per il che fra breve tempo Roberto conte di Loritello consobrino di Guglielmo , Simone conte di Policastro , ed Eberardo conte di Squillaci, i quali erano i più stimati e i più potenti signori, vennero in disgrazia del re. Guglielmo diventò così selvatico ed efferato, che fuor dell'ammiraglio e dell'arcivescovo, nessuno avea l'udienza, nè l'entratura a lui. Majone usava qualunque arte, onde il popolo e i nobdi odiassero il re, e dall'altra parte il re venisse in sospetto della coadotta di quelli. Per cui raccontava al re, e con parole esagerava le pretensioni di molti che avrebbero voluto mettersi al governo del suo regno: parlava poi col popolo delle crudeltà e della pessima condotta del Re, e mille altre cose così macchinava, e scelleratamente eseguiva, che prestamente la discordia era per eccitare a sedizione la Sicilia. Intanto si muovevano nella Puglia gravi turbolenze. Il conte di Loritello nè occupò alcuni luoghi, Roberto Suirentino s'impadronì di Capuani paese di Napoli andava sottosopra, ed Emmanuele imperator di Costantinopoli fece lega col conte di Loritello colla speranza di riacquistar la Puglia, e a tal fine mandogli a Brindisi danari , capitani e soldati. Ciò ebbe origine dalla lama sparsasi , esser già morto il re : ma inverità Guglielmo erasi chiuso nel palazzo, e per alquanti giorni da nessuna persona lecesi vedere eccetto che dall'ammiraglio, e dall' arcivescovo. Majone volle riparar quei danni, che accadevano nel regno di Napoli, e con lettere sue, e del re cercava di lare star fermi nella fede quei principi, che ancor non si erano ribellati. Al medesimo fine mandò in Calabria Matteo Bonello nobile Siciliano su cui il tutto confidava, come quello , ch' eletto egli aveva per suo genero. Costui però si unì ben presto con i nemici dell'ammiraglio, e una congiura ordì come uccidere un uom così scellerato. Ma il comandante di Calabria Niccolò Logoteta avvertì delle insidie Majone. Il Bonello, che ritornato dalla commessione fermato si era in Termini, avuto seniore , che l'ammiraglio ben sapea la congiura, con lettere efficacemente simulò di aver ben composto le cose al di là del Faro, e che tutti i baroni divenuti amicissimi pronti erano ad eseguire , quanto loro si fosse comandato. Laonde, tolti via i sinistri sospetti dall'animo di Majone, portassi in Palermo. E ben presto corse all' arcivescovo Ugone , il quale disgustato si era con l'ammiraglio, e mille occasioni ricercata , come vendicarsene. Si era nell'altra parte Majone deliberato di avvelenare l'arcivescovo. Frattanto infermossi Ugone, e l'ammiraglio ito a fargli visita vicino alla sera , gii offri un potente antidoto slla febre ma in realtà un farmaco velenoso. L'arcivescovo differì con buone parole a tracannarlo , e ritenne intanto Majone sino a notte avanzata in sua casa, fintantochè avvisato avesse Bonello ,, per porsi nelle insidie. Infatti appena uscito dalla casa dell'arcivescovo, Majone fu sorpreso dal Bonello, il quale gl'immerse nel fianco la spada sino all'elsa, e lo distese a terra (1160)."


Fonte:-

Bibliografia

Linkografia:

La Cucina Siciliana: Oggi prepariamo gli arancini.

Gli arancini. (Fonte: Dalla rete)
20 Novembre 2010.


L'arancino è una specialità della cucina siciliana.

Si tratta di una palla di riso fritta, di diametro di 8-10 cm, farcita con ragù, altre volte con composti di salsa di pomodoro, mozzarella, piselli o altro. Il nome deriva dalla forma e dal colore tipico, che ricordano un'arancia. Nella parte orientale dell'isola gli arancini possono anche avere una forma conica. Nella letteratura, il commissario Montalbano, personaggio dei romanzi di Andrea Camilleri, è un noto buongustaio e ha contribuito a far conoscere questo piatto fuori dall'Italia con il libro Gli arancini di Montalbano.

Il nome: arancino o arancina?

Nelle zone di Palermo, Trapani, Gela e Agrigento, il nome, a differenza del resto della Sicilia, è declinato al femminile: arancina invece che arancinu.

Storia:

L'arancino sembra essere stata importato dagli arabi che erano soliti mangiare riso e zafferano condito con erbe e carne, durante i pasti. L'invenzione della panatura sembra venire dalla corte di Federico II, quando si cercava un modo per recare con sé la pietanza in viaggi e battute di caccia. La panatura croccante, infatti, assicurava un'ottima conservazione del riso e del condimento, oltre ad una migliore trasportabilità. Può darsi quindi che, inizialmente, l'arancino si sia caratterizzato come cibo da asporto, possibilmente anche per il lavoro in campagna.

Preparazione:

Per la preparazione si fa cuocere al dente del riso a chicchi tondi, si impasta con burro e pecorino e si fa raffreddare su un piano di marmo. Formati dei dischi di questo impasto, si pone al centro di ciascuno una porzione di farcitura e si chiudono. Successivamente, si passano nell'uovo sbattuto e nel pangrattato, pronti per essere fritti.A Palermo è molto diffuso l'uso dello zafferano per dare un colorito dorato al riso, molto compatto e nettamente separato dalla farcitura, contrariamente a quanto succede nella zona di Messina e Catania, dove si utilizza il sugo al posto del più costoso zafferano.

Tipologie:

I gusti più diffusi nelle rosticcerie dell'isola sono: * 'al ragù', con ragù, piselli e carote; * 'al burro', con mozzarella e prosciutto; * 'agli spinaci', con spinaci e mozzarella; ma in alcune rosticcerie specializzate si possono trovare anche: * 'ai funghi'; * 'alla salsiccia'; * 'al salmone'; * 'al pollo'; * 'alla marinara'; * 'al pescespada'; * 'al pistacchio'; * 'alla carbonara'; * 'alle melanzane'; * 'al cacao' (coperte di zucchero, vengono preparate solitamente per la festa di Santa Lucia); * 'alla nutella'(soprattutto nella zona di Messina). Per facilitare la distinzione tra i vari gusti, la forma dell'arancino può variare; Una variante degli arancini, rotondi e più piccoli, è anche diffusa come prodotto tipico delle friggitorie napoletane, note come palle di riso.


Ricetta: ARANCINI DI RISO

½ lt. di brodo una bustina di zafferano 60gr. di burro 60 gr. Parmigiano 1 uovo sale pepe q. b. 300 gr. di riso 1 cipolla 100 gr. di vitello 100 gr. di pollo 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro 150 gr. di piselli 1 mozzarella Risorse in Rete Acquisti alimentari Alimentazione Cocktail Corsi di Cucina Ricette Ristoranti Vini Libri di Cucina Bevande

In un litro di brodo far cuocere il riso. Una volta che tutto il brodo è stato assorbito, aggiungere l'altro ½ lt. del brodo, in cui precedentemente avrete sciolto la bustina di zafferano. Continuare la cottura finché il riso non giungerà a cottura. Aggiungere, subito dopo il burro e il parmigiano, un uovo, il sale ed il pepe. Riporre il riso in frigo per almeno 2 ore. Per il RIPIENO tritare finemente una cipolla e farla saltare in padella con poco olio e burro. Quando la cipolla si sarà ammorbidita aggiungere il macinato di vitello e i fegatini di pollo precedentemente puliti (eliminare il grasso e il fiele). Quando la carne è ben rosolata aggiungere un cucchiaio di pasta di pomodoro concentrato diluito in ½ bicchiere di acqua calda. Far lessare e salare i piselli a parte. Quando è tutto cotto lasciare intiepidire. Con le mani bagnate formate delle pallette di riso del diametro di 6 cm circa. Scavare una nicchia in ciascun arancino e riempirla con la carne i piselli e un pezzetto di mozzarella. Chiudere bene l'arancino, infarinarlo passarlo in un uovo leggermente sbattuto e salato, passarlo nel pangrattato e mettere in frigo per almeno 2 ore. Friggere in fine in abbondante olio caldo.

Vino rosé fruttato, servito leggermente fresco.





Fonte:-

Storia delle Sante Patrone di Palermo. Seconda parte.

20 Novembre 2010.

Palermo e le sue Sante Patrone. 

La grande popolarità raggiunta dal culto per la Vergine - a Palermo - impedì a figure locali come la giovinetta di nome Oliva, pur vissuta in odore di santità, di assurgere subito al rango di patrona cittadina. Negli anni oscuri dell'occupazione saracena le tradizioni cristiane si affievolirono nel tempo pur senza mai spegnersi del tutto. Con la liberazione della città da parte di Ruggero e Roberto d'Altavilla il suo rapido emergere politico, prima come città principale della gran contea di Sicilia, poi come capitale del regno fondato da Ruggero II d'Altavilla, fecero sì che la questione del suo prestigio e del suo patronato si ponessero nuovamente ma guardando sempre alla figura della Vergine. Infatti, anche la cattedrale di Palermo e il vicino duomo di Monreale - entrambi costruiti nel dodicesimo secolo - erano dedicati alla Vergine. Si consideri, inoltre, che altre quattro chiese di Palermo in quell'epoca erano intestate alla Madonna Odighitria. Questo culto molto diffuso era, quindi, fortemente radicato nella coscienza religiosa e nazionale del popolo siciliano.

A partire della prima metà del cinquecento la città di Messina prevalse su quella di Palermo. In particolare, il 15 Agosto, giorno dell'Assunta, venivano esibite nella città dello stretto una serie di grandi macchine trionfali: la vara dell'Assunta; i due Giganti; la Galea ed il vascello del grano. Tutti i simboli attinenti alla storia di Messina ed alle sue aspirazioni politico-economiche. In quell'epoca i messinesi avevano eletto a patrona della città proprio la Madonna, a differenza di Palermo, che non aveva osato tanto.

I palermitani, tenuto conto dell'audace decisione dei messinesi, decisero di adottare come patrone quattro sante: sant'Oliva; santa Ninfa; sant'Agata e santa Cristina. Di queste quattro sante solo Oliva, sicuramente, era palermitana. La vita di Oliva è incerta, ricca di superstizioni dovute alle leggende che l'hanno arricchita posteriormente, nonché di punti interrogativi. Prima di tutto l'epoca in cui è vissuta. Probabilmente visse verso il 437, epoca in cui Genserico, capo delle bande dei vandali, s'insediò nelle provincie romane del Nordafrica occupando la città di Cartagine. Da qui condusse due incursioni in Sicilia; la prima nel 446, nella quale occupò Lilibeo, la seconda, nel 454, nella quale assediò Palermo senza poterla espugnare.A quest'epoca Oliva era una giovinetta di tredici anni. Più fonti la indicano come figlia di una famiglia molto agiata. Di sentimenti tanto religiosi da aver fatto voto di castità ed essersi dedicata ai poveri e ai diseredati della città. Caduta nelle mani dei vandali di Genserico venne deportata a Cartagine. Qui i vandali, essendo ariani, imposero l'abiura ai deportati. Oliva, condotta davanti al governatore Amira, rifiutò. Forse anche perchè il riscatto non arrivava , costui la spogliò di ogni cosa e la fanciulla, ridotta in povertà, riprese la sua vita fra i poveri. Costituì una piccola comunità e la sua operosità benefica la rese nota e popolare anche a Cartagine. Dopo un certo tempo il governatore della città di Cartagine, per evitare che i cattolici ne facessero un simbolo per riprendere vigore contro gli ariani, le ingiusse di vivere fuori città, in una grotta. Ma anche qui Oliva,imperterrita,continuava la sua attività benefica verso gli esclusi, gli emarginati. Alla fine il governatore, fattala prendere, la sottopose a supplizio e le fece decapitare. Era il 10 giugno dell'anno 463. Oliva aveva ventidue anni. I suoi poveri, che avevano seguito le vicissitudini della giovane benefattrice nei nove anni di deportazione, ne trafugarono il corpo e lo seppellirono facendo edificare in seguito, presso la sepoltura, una piccola cappella. Con l'arrivo dei saraceni questa fu trasformata in moschea. Altre fonti danno per certo - invece - che il corpo fosse stato riportato a Palermo. D'allora in poi la vita di Oliva fu circonfusa dalla leggenda, in seguito sopravvenne la canonizzazione.La particolare morte della santa panormita dal nome curioso e familiare, si contornava subito di mistero e ammirazione. Il fatto che ella fosse morta in quella terra nordafricana dalla quale vennero poi le terribili incursioni navali dei saraceni, le aggiunse un colore tutto particolare. La leggenda è legata alla vicenda del corpo della martire. In particolare, alcuni affermavano che, riportato a Palermo, fosse stato sepolto nella chiesetta che in suo onore era stata eretta in una zona cimiteriale fuori dalle mura della città; la chiesa di santa Oliva appunto, oggi inglobata in quella di san Francesco di Paola. Altri sostenevano invece ch'esso fosse rimasto a Tunisi, venerato sia dai cristiani sia dai musulmani, e che i saraceni avessero edificato nel luogo della sepoltura una delle loro pià grandi moschee. Ma nell'uno e nell'altro caso, questo corpo, avvolto nella pelle di un cammello, giacerebbe nel fondo di un profondo pozzo. Nessuno potrà nè trovarlo nè vederlo. Soltanto quando piacerà alla divina provvidenza esso sarà rivelato.La leggenda narra che nel giorno in cui il corpo della martire sarà restituito ai fedeli un terremoto sconvolgerà Palermo e il sangue correrà a rivoli riversandosi lungo le vie dell'antico Cassaro (oggi via Maqueda). Grazie a tale sconvolgimento la città - purificata da tanta tragedia - uscirà mondata da una lunga precedente sciagura e avrà inizio un'era migliore.Alcune cronache monastiche narrano di due tentativi fatti da altrettanti frati del convento di san Francesco di Paola i quali si fecero calare nel pozzo di sant'Oliva. Il primo, dopo aver digiunato e fatto altre penitenze per prepararsi spiritualmente, si fece calare, appeso ad una fune e armato di una fiaccola, nel profondo del pozzo. Tutto andò bene fino a quando , giunto quasi a lambire l'acqua del fondo, si levò improvviso un vortice di vento, la fiaccola si spense e il frate, sbattuto da una parete all'altra del pozzo, quasi tramortito, fu subito tirato su dai confrati atterriti. Per nulla sgomento da questo episodio un'altro frate volle tentare la stessa esperienza. Si fece calare nel pozzo e, giunto sul fondo, notò la presenza di una caverna. Decise di entrare al suo interno quando una terribile voce lo ammonì a non tentare la sua impresa in considerazione del fatto che il tempo non era giunto e che non era possibile rivelare ai devoti la presenza nel fondo del pozzo del corpo della santa.

Fonte: -

Storia delle Sante Patrone di Palermo. Prima parte.

20 Novembre 2010.
 
Palermo e le sue Sante Patrone.

Prima della nascita di Rosalia, giovane donna palermitana di origine nobile che scelse di vivere da eremita presso il Monte Pellegrino di Palermo (monte solitario, mons Peregrinus), in un giorno che non si conosce, in un anno che non si conosce (nel dodicesimo secolo), che per sua libera scelta aveva stabilito di prendere dimora in un'umida e profonda grotta di quel monte, poi divenuta Santa, e per acclamazione popolare patrona di Palermo(in seguito alla debellione della pestilenza che aflisse il capoluogo siciliano nel seicento per intercessione delle spoglie mortali della Santuzza che vennero portate in processione per le vie della città attanagliata dalla epidemia, da poco rinvenute sul Pellegrino),la città ebbe come Sante Patrone altre e ben diverse figure della religione Cristiana. 

L'icone della Madonna Odighitria. 

Nel 718 d. C. una imponente flotta saracena mise l'assedio alla capitale dell'impero romano, la splendida ed invitta città di Costantinopoli. Durante l'invasione fu ordinato di portare sulle mura della città la sacra icona della Madonna Odighitria custodita nella cappella imperiale della Blacherne, affinchè assistesse le armi cristiane. La leggenda narra che, all'apparire della venerata immagine, si levasse improvvisamente un forte vento su tutto il Bosforo e il Corno d'Oro. La tempesta strappò dagli ormeggi le navi saracene disperdendole come fuscelli di paglia dal mare di Marmara agli stretti e i soldati nemici, presi dallo sconforto, abbandonarono disordinatamente la mischia. La città, grazie all'intercessione divina della Vergine, era salva e, con essa, l'impero cristiano di Costantinopoli. In seguito, alcuni soldati siriani che avevano partecipato alla difesa di Costantinopoli, scioccati e commossi dall'evento soprannaturale a cui avevano assistito, fecero dipingere copia dell'icona miracolosa e la portarono con loro a Palermo, dove erano stati destinati di guarnigione. Da allora, grazie ai loro racconti della miracolosa vittoria dell'esercito Cristiano sui saraceni durante l'assedio di Costantinopoli, si diffuse la devozione verso la Vergine odighitria (nella vasta iconografia bizantina l'odighitria è quella Madonna che "indica il cammino", detta anche "condottiera", ed è raffigurata frontalmente con il bambino sorretto dal braccio sinistro, mentre la mano destra è tesa in avanti nell'atto di indicare la direzione) che salva la patria contro gli invasori. Il culto della odighitria si diffuse rapidamente in tutta la Sicilia e venne, in seguito, ufficializzato con la proclamazione appunto della Signora di Costantinopoli a patrona del thema di Sicilia, cioè della provincia imperiale bizantina che, creata nell'VIII secolo, comprendeva la Sicilia con le isole minori annesse, la Calabria ed il Salento. La venerazione dei palermitani per la odighitria si concretizzò allorquando l'icona che i soldati avevano portato da Costantinopoli venne custodita nella chiesa della Madonna di Costantinopoli, che era ubicata presso il castrum superius, la sede dell'autorità civile e militare della città, l'attuale palazzo reale. Durante la prima epoca del regno di Sicilia (dodicesimo secolo) la chiesa della Madonna di Costantinopoli divenne suffraganea della cappella di san Pietro (la cosiddeta "cappella palatina" di Palermo) costruita da re Ruggero II Altavilla proprio all'interno del palazzo reale, e che fu di jus-patronato regio. 


Fonte: - 

giovedì 18 novembre 2010

Il Palazzo reale di Palermo. La Storia di un antico monumento dalle sue origini ai giorni nostri. Seconda parte.

18 Novembre 2010.



Ugo Fancaldo, autore di cronache della seconda metà del secolo XII,  nella sua opera  «Liber De Regno Sicilie », nella quale narrò la storia del regno normanno di Sicilia, soprattutto sotto il regno del re Guglielmo I,detto il Malo, successore di Ruggero, il quale trascorse la maggior parte del suo periodo di regno in Palermo, e la maggior parte delle sue giornate - come sussurravano le malelingue - nei giardini e negli harem del suo palazzo (La presenza fisica del sovrano in Sicilia consenti perciò l'evolversi di un sistema amministrativo alquanto diverso, impostato su fondamenta ad un tempo arabe e bizantine, n.d.r.), continuando nella sua descrizione delle meraviglie del Palazzo reale di Palermo, fra l'altro, aggiunge:" Parecchi altri edifizii per così dire piccoli palazzi, ricchi di splendidi ornamenti erano ivi ancora, dove soleva il Re secretamente trattare coi suoi familiari di affari di stato, o coi magnati dei pubblici e maggiori affari del regno."

Uno di questi era senza dubbio l'aula regia che era attaccata al palazzo; qui fu, come lo stesso Fancaldo riferisce nelle sue cronache, che Guglielmo I il Malo convocò il popolo essendo scappato dalle mani dei congiurati. Nel Palazzo, sappiamo ancora dallo stesso scrittore, vi furono delle carceri. In particolare, il Fancaldo racconta che Guglielmo I, durante la rivolta del Bonello 1160-1161, essendo stati fatti uscire dai congiurati i detenuti dalle carceri del Palazzo, fra i quali dei nobili e dei congiunti del re, durante le fasi concitate della suddetta vicenda, fu per ben due volte assalito da questi, tanto che il sovrano, per evitare il ripetersi di questi  spiacevoli episodi in futuro, fece spostare i detenuti che erano reclusi all'interno del Palazzo facendoli trasferire nelle carceri del Castello a mare, oltre che distribuendoli anche in altri Castelli dell'isola . Anche ai tempi dei Saraceni vi erano all'interno del Palazzo "le pubbliche carceri", come si deduce dalle parole della lettera del monaco Teodosio condotto da Siracusa, dopo l'espugnazione, prigioniero a Palermo:"

Il siracusano Claudio Mario Arezzo, vissuto fra le fine del Quattrocento e il 1575, pubblicò nel 1537 il - De Situ Siciliae -, primo vero tentativo di un completa descrizione geografica della Sicilia, in cui, fra l'altro, riferisce che nel real Palazzo:
Fonte:-

Bibliografia:
  1. "Liber de regno Sicilie";
  2. Descrizione di Palermo antico / ricavata sugli autori sincroni e i monumenti de' tempi da Salvadore Morso, dalla pagina 17 alla pagina 19.
Linkografia:

mercoledì 17 novembre 2010

Il Palazzo reale di Palermo. La Storia di un antico monumento dalle sue origini ai giorni nostri. Prima parte.

La città di Palermo nell'antichità e la sua Paleopoli  (Fonte: Dalla rete)
17 Nov. 2010.


Il Palazzo reale di Palermo sorge nella parte più antica della città di Palermo, l'antica Paleopoli che durante la dominazione araba venne chiamata Halqah e al suo interno venne edificato un nuovo e grandioso castello ed un'enorme moschea che poteva ospitare fino a 7.000 persone (la moschea risiedeva al posto dell'attuale cattedrale). Gli storici credono che fu, oltre che la residenza dei Principi musulmani e dei sovrani Normanni e Svevi, la dimora dei sovrani che dominarono la Sicilia anche durante il periodo dei Goti, dei Romani, dei Cartaginesi, che fecero di Palermo la capitale del loro impero in Sicilia.
Così come riferisce il Polibio (Πολύβιος), vissuto fra il  206 a.C. ed il  124 a.C., che  fu lo storico greco antico del mondo mediterraneo (studiò in modo particolare il sorgere della potenza della Repubblica Romana. Storie, la sua opera di ricerca storica è estremamente importante per il suo resoconto della Seconda guerra punica e della Terza guerra punica fra Roma e Cartagine), fu proprio sull'antico nucleo del tessuto urbano della città di Palermo che nacque la sede della suprema autorità. La testimonianza dell'autore della geografia nubiese ce ne dà forte argomento. Egli nella descrizione di Palermo riferisce che la città si poteva suddividere in due parti: la prima denominata "il cassaro" e la seconda "i sobborghi". Relativamente al "cassaro", quello più antico e più celebre, si poteva suddividere in tre ordini. Sotto la voce di Cassaro, viene inteso propriamente il Palazzo reale, che il Polibio chiama "antico e celebre", e che diede, secondo lui, la denominazione a tutta l'antica città. Già al tempo di Polibio questo antico palazzo era la residenza del Re. 

Cappella Palatina, Palermo, Sicily, Italia; taken on 6th October 2004 by Christian Campe
Furono poi Ruggero II di Sicilia, figlio di Ruggero I, chiamato da alcuni storici il Gran Conte Ruggero, fratello di Roberto il Guiscardo della dinastia degli Altavilla, conquistatore ed il primo Conte di Sicilia (1062), e suo figlio Guglielmo I, anche detto "il Malo", che apportarono al Palazzo profonde modifiche, che ne modificarono la forma tanto che Ugo Fancaldo, autore di cronache della seconda metà del secolo XII,  nella sua opera  «Liber De Regno Sicilie », nella quale narrò la storia del regno normanno di Sicilia, soprattutto sotto il regno del re Guglielmo il Malo, lo indicò come  "il  Palazzo nuovo". Il Palazzo durante la dominazione Araba dominava tutta la città, tanto che il Fancaldo, volendo usare una metafora, scrisse nelle sue cronache che in quell'epoca  "Signoreggiava la testa su tutto il corpo". 

Un'antica tradizione, giunta sino a noi, affermava poi che la vergine Santa Ninfa, figlia di Aureliano, prefetto di Palermo al tempo di Costantino, cioè agli inizi del IV secolo, fosse nata all'interno del Palazzo e che essendo cresciuta fra le sue mura  ed avendo avuto modo di ammirare dalla'alto della torre, che porta il suo nome, la modestia dei discepoli del vescovo Mamiliano, si fosse convertita al Cristianesimo e che in seguito, incontrando l'odio del padre, coronò con il martirio la sua verginità (Aureliano, cercò in tutti i modi di far recedere la figlia dalla nuova religione, fece persino arrestare Mamiliano con duecento altri cristiani e li sottopose a torture. Poiché ogni tentativo risultò vano, li fece rinchiudere in carcere, ma un angelo li liberò e li condusse in riva al mare, dove trovarono pronta una barca per prendere il largo. Si diressero verso nord e viaggiarono per mare fino all’isola del Giglio, dove rimasero qualche tempo in preghiera e solitudine.) . A Palermo, santa Ninfa fu eletta patrona della città assieme ad altre quattro sante vergini, Santa Rosalia, Sant'Agata, Santa Oliva e Santa Cristina. Da Palermo il suo culto si diffuse in tutta la Sicilia, tanto che un paese in provincia di Trapani porta il suo nome.

Le innovazioni di stile  al Palazzo furono apportate inizialmente, così come si diceva, da Ruggero I il Normanno, ma una grandissima ne fu fatta da Guglielmo I. Romualdo salernitano, scrittore coevo di Guglielmo I, che di questo sovrano fu l'autore di tutte le opere a mosaico della chiesa di palazzo, narra che fu proprio Guglielmo, volendo sorpassare le opere fatte da suo padre, che aveva fabbricato Favaria, Mimnerno ed altri luoghi deliziosi, costruì un palazzo nuovo a grandi spese e con meravigliosa celerità; ma suo malgrado, prima che potesse vedere  i frutti del lavoro ed ammirare la maestosità della sua opera finalmente realizzata, vittima di una dissenteria morì.

 Il Fancaldo così descrive il palazzo "Alterius vero lateris partem palatium novu a insedit mira ex quadris lapidibus diligentia, miro labore constructum, exterius quidem spaciosis  murorum naufractibus circumclusum, interius vero multo gemmarum, aurique......ecc..ecc..." che tradotto nella nostra lingua evidenzia e ci fa intuire  la magnificenza dell'opera voluta dal sovrano: "Ben quadrate pietre colla maggiore diligenza e con somma maestria lavorate formavano il grandioso edifizio, larghe muraglie lo chiudevono intorno intorno dalla parte di fuori, e tutto l'interno del palazzo di oro e di gemme sfarzosamente splendea; due torri lo terminavano dall'una e dall'altra estremità la Pisana destinata alla custodia de' regali tesori e la Greca. Decorava il luogo di mezzo quella parte del palazzo risplendente per la verità de' suoi ornamenti per nome Joaria (dall'arabo, che significa luogo spazioso) destinata al sollazzo del re nelle ore di ozio e di quiete. In tutto il resto del palazzo erano distribuite  con ordine le stanze destinate all'abitazione delle Matrone, delle Donzelle e degli Eunuchi impiegati al servizio del Re e della Regina".

Il Palazzo reale di Palermo (Foto 1)
Il Palazzo reale di Palermo (Foto 2)

Fonte:-

Bibliografia:
  •  Descrizione di Palermo antico / ricavata sugli autori sincroni e i monumenti de' tempi da Salvadore Morso, dalla pagina 11 alla pagina 16.
Linkografia:

La frase di oggi.

17 Nov. 2010.

"Ci sono crimini peggiori del bruciare libri. Uno di questi è non leggerli."

Ricorrenze storiche di oggi, mercoledì 17 Novembre 2010.

 

 

 

 

 

Eventi 

martedì 16 novembre 2010

Le vie di Palermo: Via Libertà.

16 Nov. 2010.

Si estende dalla piazza Castelnuovo e Ruggero Settimo alla piazza Vittorio Veneto, nel quartiere Politeama - Libertà.

E' ritenuta, giustamente, la più bella arteria stradale del capoluogo della Sicilia. Trattasi di un bel viale alberato ricco di vetrine e boutique; ampio e grandioso, elegantissimo coi suoi platani verdi e folti (per usare la stessa espressione di Adrien de Saint che scrisse nell'Ottocento la magnificienza del viale). Al tempo in cui visse il de Saint la via era ricca di ville in stile liberty, lo stile di fine Ottocento e dell'inizio del Novecento; le ville e i palazzi di una borghesia che voleva sentirsi all'altezza della vecchia aristocrazia cittadina.Chi giunge a Palermo potra' sentire ancora oggi gli echi di una citta' che, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, aveva scelto il modernismo, la cosiddetta art-nouveau, per realizzare opere che mostrassero la ricchezza e il prestigio di una borghesia imprenditoriale in ascesa. Una classe che intendeva costruire teatri piuttosto che chiese, e poi palazzi e ville all'altezza di quelle dell'antica aristocrazia. Ecco il liberty. Si mostra glorioso negli interni del Teatro Massimo ai quali lavoro' Ernesto Basile che diresse i lavori dal 1891, anno della morte del padre Giovan Battista Filippo ideatore del progetto iniziale, o nello splendido salone di Villa Igiea affrescato da Ettore De Maria Bergler in una esplosione di fanciulle in fiore tra iris, papaveri e melograni. Ma effigie di uno stile che rappresenta meglio di ogni altro un modo di vivere, e' anche il ritratto di Franca Florio come ci giunge attraverso la pennellata rapida, eccentrica del pittore Giovani Boldini. Il quadro, oggi perduto, e' noto soltanto attraverso alcune riproduzioni. Sembra che sia stato rifatto da Boldini per ben due volte: a Ignazio Florio non piaceva l'aria lasciva che il pittore aveva attribuito a sua moglie, splendida e ammiratissima figlia del barone di San Giuliano. Bisogna ammettere pero' che anche nella seconda versione Donna Franca appare in tutta la sua sensuale bellezza. Ha uno sguardo perso a immaginare chissa' cosa, uno scollatissimo abito che pare decorato con inserti tratti da un repertorio di stoffe art-nouveau, e porta al collo il suo celeberrimo filo di perle lungo sette metri. La stessa collana che indossa in una foto scattata nel 1904 mentre riceve l'Imperatore Guglielmo II nel parco della sua casa, appena rinnovata, all' Olivuzza. Ma ritorniamo alla via Libertà. Oggi quelle ville, quei palazzi in stile liberty, purtroppo, non esistono più in quanto una spregiudicata speculazione edilizia ( frutto del malgoverno di una classe politica durata più di vent'anni che aveva trovato in tale attività un'ottima fonte di reddito e di riciclaggio per il danaro sporco della mafia del tempo <-1950-1975> a cui era saldamente legata) ha fatto del cemento armato uno stile e una cultura di vita, facendo perdere alla via quel fascino originario che aveva al tempo delle realizzazioni architettoniche di Ernesto Basile che del liberty palermitano è l'esponente preminente.

Il nome alla via fu dato dai patrioti del 1848 che ne tracciarono il percorso, creando quel polmone urbanistico che congiungeva il centro storico con il parco della Favorita. Repressi i moti rivoluzionari del '848, tornati i Borbone, la via divenne "via della Real Favorita". Raggiunta l'indipendenza il nome precedente fu ripristinato.

Al termine del viale vi è piazza Vittorio Veneto ove si erge il monumento commemorativo del 27.05.1860, opera di Ernesto Basile (1909-1910) con bassorilievi di Antonio Ugo. Nel 1931, ad opera del Basile, fu aggiunto l'emiciclo che si trasformò in monumento ai caduti.

Lungo il percorso del viale, in piazza Mordini vi è il monumento della Libertà, con l'immagine simbolo dell'aquila; nella successiva piazza Crispi, il monumento al Crispi, opera di Mario Rutelli (1905). Lungo il percorso si incontra il prospetto in stile neo - medioevale del Conservatorio delle Croci (fondato nel 1690 per accogliervi fanciulle povere), che fu costruito da Giovan Battista Filippo Basile.

Proseguendo nel percorso , sulla sinistra c'è Villa Garibaldi, con il monumento a Garibaldi (1892), opera di Vincenzo Ragusa. Alla base del monumento è scolpito un leone, ad opera di Mario Rutelli. Di fronte vi è il Giardino Inglese con all'interno la famosa scultura dei fratellli Canaris, di Benedetto Civiletti.Il Giardino Inglese, realizzato tra il 1850 ed il 1853 su disegno di Giovan Battista Filippo Basile, si ispira ai canoni della tradizione anglosassone, sfruttando ed enfatizzando le caratteristiche orografiche del terreno, snodando percorsi con andamenti sinuosi e piccoli manufatti all'interno: padiglioni, fontane, statue, busti, cippi commemorativi, una serra ed una voliera.

Il parco è strettamente connesso a quello che in origine fu chiamato lo Stradone della via Libertà, aperto nel 1848 a seguito della deliberazione adottata dal giovane e provvisorio Governo rivoluzionario siciliano, che ne comportò la suddivisione in due aree una di fronte all'altra: il Parterre Garibaldi, realizzato su un unico livello, nel quale si erge la statua equestre di Giuseppe Garibaldi, e il Bosco, nel quale si trova la maggior parte dei manufatti interessati dal progetto.

Nell'estate del 2003, dopo quattro mesi di lavori (appalto assegnato riutilizzando residui dei fondi Onu messi a disposizione dalla Prefettura), sono stati restituiti alla città l'intero nonché pregiato parco statuario e la casa del custode del Giardino Inglese.

Trentuno, in tutto, gli elementi scultorei recuperati, tra statue, cippi, busti e fontanelle, espressioni della creatività di maestri siciliani: da Benedetto Civiletti a Mario Rutelli, da Antonio Ugo a Ettore Ximenes. Le opere, disposte lungo i percorsi del giardino, presentavano evidenti segni di degrado, provocati dagli agenti atmosferici, da atti di vandalismo, ma anche dall'incuria in cui erano state lasciate per anni. Fra i monumenti restaurati c'è anche la statua equestre che raffigura Giuseppe Garibaldi, posta nel parterre di fronte al giardino (oggi intitolato a Giovanni Falcone e Francesca Morbillo), opera bronzea di Giovan Battista Ragusa sul cui basamento è collocato un leone in bronzo scolpito dal Rutelli.

E nuovo smalto è stato dato anche all'ottocentesca casa del custode, ridotta ormai quasi a un rudere. L'edificio, tirato a lucido con un'azione mirata sia alla conservazione che a un vero e proprio recupero formale-estetico e funzionale, è stato riportato al suo originario aspetto, in armonia con la riqualificazione dell'intero parco. Fra le parti della villa recuperate figurano anche l'imponente voliera per gli uccelli e la serra.

Nell'ambito dei lavori, attraverso una ricerca negli archivi della Civica Galleria d'arte moderna “Empedocle Restivo”, e grazie anche ad alcune testimonianze, sono stati ritrovati e ricollocati decine di frammenti di statue di marmo, oltre alla mano di bronzo della Piccola vedetta lombarda, statua che si trova in prossimità dell'ingresso da via Libertà. I frammenti, tutti ben conservati, sono stati rinvenuti nei depositi della stessa Galleria. Inoltre, sono stati restaurati e ricollocati sui loro piedistalli originali due busti in marmo che ritraggono Felice Cavallotti e Nino Bixio, rinvenuti nei magazzini dei giardinieri del Giardino Inglese.

I lavori hanno portato anche al recupero di una vasca che, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, veniva utilizzata per l'accumulo dell'acqua ad uso irriguo e che poi, negli anni Sessanta, era sta soprelevata con un cordolo in cemento armato di un metro e mezzo. Il cordolo, adesso, è stato rimosso. La vasca, riportata alla sua altezza originaria e nuovamente ben visibile, è stata trasformata in una fontana con pesci, piante acquatiche, zampilli d'acqua e un nuovo impianto di illuminazione che consentirà di apprezzarne il valore ornamentale anche nelle ore serali.

Nell'ambito dei lavori è stato anche demolito un manufatto degradato che si trovava tra la Casa del custode e l'attigua villa Pottino. L'edificio, ormai in disuso e pericolante, aveva ospitato fino a quindici anni fa il laboratorio di un calzolaio. Nel '91, cessata tale attività, era stata emanata dal Comune un'ordinanza di demolizione dell'immobile, mai eseguita fino ad ora. Al posto della vecchia e cadente costruzione, è stato realizzato un prato. Sono stati rifatti, inoltre, circa venti metri di recinzione della villa, laddove prima sorgeva il muro perimetrale del manufatto.

Le vie di Palermo:Via Emerico Amari.

16 Nov. 2010.

La Via E. Amari di Palermo
La via Emerico Amari (1810-1870) si estende dalla via Francesco Crispi alla piazza Ruggero Settimo. E' intitolata all'uomo politico,economista e giurista Palermitano che fu protagonista dei moti rivoluzionari del 1848 contro i Borbone. Fu poi arrestato e si diede all'esilio. Divenne professore di diritto penale a Firenze e si dedicò ai problemi statistici ed economici. Fu poi per ben due volte deputato nazionale. Si ricorda la sua opera, Degli elementi che costituiscono la scienza del Diritto Penale, e i suoi scritti sul "Giornale di Sicilia". Divenne un famoso e apprezzato criminalista. Insegnò anche all'Università di Palermo. Fu anche filosofo.

Biografia

L' Amari nacque a Palermo il 10 maggio 1810 dal ramo principale di una tra le più antiche e nobili famiglie siciliane.Figlio del Conte di S. Adriano Mariano Salvatore Amari, che si distinse come deputato nel Parlamento siciliano del 1812, e di Rosalia Baiardi dei Marchesi di S. Carlo, fu il terzogenito di altri fratelli illustri come il Conte Michele e Gabriele. Studiò dai padri Scolopi nel collegio Colasanzio di Palermo con Vito D'Ondes Reggio, dove si distinse per ingegno e vivacità culturale.Iscritto all'Università di Palermo, intorno ai vent'anni si laureò in giurisprudenza e intraprese per un brevissimo periodo l'attività forense che abbandonò per dedicarsi agli studi scientifici. Nel 1833 fu pubblicato, sulle"Effemeridi scientifiche letterarie" il suo primo scritto dal titolo Sopra gli elementi di filosofia del Prof. V. Tedeschi che, ispirato all'empirismo lockiano e alla filosofia di Romagnosi, si opponeva a Kant e all'eclettismo allora dominanti in Sicilia.Dal 1836 collaborò attivamente al "Giornale di Statistica" e, nel 1838, divenne socio dell'Istituto di incoraggiamento con Francesco Ferrara, Raffaele Busacca e Vito D'Ondes Reggio. Fra loro nacque una solida amicizia che durò negli anni e si trasformò in parentela. Lo stesso Amari nel 1837 sposò Concetta Busacca di Gallidoro, sorella dell'amico Raffaele.Gli scritti di Emerico Amari sul "Giornale di Statistica" furono principalmente di natura giuridica ed economica, questi ultimi ispirati al liberismo .

Nel 1844, nei volumi degli "Atti dell'Accademia di Scienze e lettere ed arti", apparve L'indole, la misura e il progresso dell'industria comparata delle nazioni, introduzione ad un lavoro più ampio mai portato a termine. Lo stesso anno collaborò con Francesco Ferrara e Raffaele Busacca a una nuova serie del "Giornale di Commercio". Dal 1841 fino al 1848 insegnò diritto penale nell'Università di Palermo. Le sue lezioni, ispirate ai principi liberali, gli procurarono i sospetti della polizia borbonica; sospetti che si rafforzarono nel dicembre 1842 dopo una lezione contro la pena di morte svolta tra il plauso degli studenti.

Durante lo stesso periodo fu direttore della Real Casa dei Matti, Deputato della Biblioteca comunale di Palermo e membro del Consiglio distrettuale. Presiedette pure alcune commissioni governative su importanti progetti come la riforma carceraria e il popolamento dell'isola di Lampedusa.

In parte coinvolto nelle agitazioni del novembre 1847, alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione del 1848 fu arrestato la notte del 10 gennaio insieme al fratello Gabriele, all'amico Ferrara e ad altri illustri personaggi sospettati di cospirazione. Liberato dopo alcuni giorni, quando le truppe napoletane abbandonarono Palermo, entrò a far parte del Comitato rivoluzionario e redasse l'Atto di Convocazione del General Parlamento di Sicilia.

Eletto deputato a Salemi e a Palermo, fu vice presidente della Camera e presidente della Commissione per la riforma della costituzione del 1812. Successivamente fu inviato come diplomatico prima a Roma e poi a Torino dove offrì, insieme al Barone Pisani, al Principe di Granatelli e a La Farina, la corona di Sicilia al Duca di Genova.

Rientrato a Palermo mentre le truppe borboniche riconquistavano l'isola, fuggì a Malta e successivamente a Genova. In esilio collaborò come giornalista a "La Croce di Savoia", al "Monitore dei comuni italiani" e all'"Economista". Scrisse molti memoriali indirizzati a governi stranieri in difesa della Rivoluzione siciliana.Tra i curatori di alcune delle opere inserite nella Biblioteca dell'Economista - che tradusse dall'inglese, francese e tedesco - fu vice presidente della sezione archeologica della Società di Storia Patria Ligure e membro dell'Accademia di Filosofia italica che pubblicò, nel 1857, la sua opera più importante, La Critica di una scienza delle legislazioni comparate, trattato di filosofia che ebbe un grande successo tra i contemporanei sia in Italia, sia all'estero. Nel 1859 Amari divenne docente di Filosofia della storia nell'Istituto di studi superiore di Firenze dove pronunciò la prolusione Del concetto generale e dei sommi principi della filosofia della storia, dato alle stampe nel 1860.

Rientrato in Sicilia dopo la spedizione garibaldina, ricevette in ottobre la carica di vice Presidente del Consiglio Straordinario di Stato per la Sicilia, organo che avrebbe dovuto suggerire i provvedimenti necessari per armonizzare le condizioni dell'isola con il resto della nazione, dal quale si dimise per protestare contro l'annessione e la mancata convocazione di un'assemblea costituente.

Coerente nella sua opposizione al centralismo del nascente Stato italiano, rifiutò anche le numerose cariche pubbliche che gli furono offerte, come quella di Presidente del Consiglio Superiore di Istruzione Pubblica.

Nominato docente di Storia del diritto e di legislazione comparata nell'Università di Palermo, respinse anche questo incarico, ribadendo i motivi del suo isolamento e della sua opposizione con una lettera, affettuosa e cordiale, al ministro della pubblica istruzione Michele Amari.
Dietro insistenza di Francesco Crispi, resse però l'ufficio di Consigliere di Luogotenenza dell'Interno, con il solo intento di aiutare la città di Palermo in un momento di disordini.
Candidato da tutti gli schieramenti politici nel collegio elettorale di Castellammare di Palermo, fu eletto a primo scrutinio deputato del I Parlamento italiano. Tra i suoi interventi parlamentari si ricordano quelli in difesa della città di Palermo e della Sicilia, contro lo scioglimento dell'esercito meridionale e sull'abolizione degli enti ecclesiastici.

Presentò le dimissioni alla Camera nel 1862, a causa della grave malattia del figlio Salvatore che morì lo stesso anno, ma, in segno di stima, il Parlamento le rigettò. Profondamente prostrato, attraversò un lungo periodo di isolamento dalla vita pubblica e da ogni attività.
Nel 1864 fondò la Nuova società per la storia di Sicilia, il primo nucleo della futura Società di storia patria.

Durante gli eventi rivoluzionari palermitani del 1866 fece in modo di non lasciarsi coinvolgere e, per evitare il contagio del colera, si trasferì a Livorno dal fratello, il Conte Michele, allora prefetto in quella città.

Nel 1867 fu rieletto deputato del III collegio di Palermo e durante quella legislatura si oppose al progetto di legge sull'asse ecclesiastico, per poi dimettersi dopo pochi mesi.
Dal 1868 fece parte del Consiglio municipale di Palermo e di quello provinciale, cariche che ricoprì fino alla morte.

Colpito da una fulminea e ignota malattia si spense il 20 settembre 1870. Per volontà del Comune di Palermo le sue spoglie furono tumulate nel Pantheon di S. Domenico dove gli venne innalzata una scultura celebrativa.

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