Francesco
Toscano
MALACARNE
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi,
personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o
sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o
persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.
A mia figlia, la luce dei miei occhi.
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Civile, libro V titolo nono, capo I, articoli da 2575 a 2583.
Revisione del 30 maggio 2021.
© 2021, Francesco TOSCANO.
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Gli
ultimi arredi urbani erano arrivati da poco tempo in via Maqueda, antico asse
viario di Palermo, quando Francesco Salvatore Magrì, inteso Turiddu, si
accingeva a festeggiare il suo diciottesimo compleanno.
Figlio
di Carlo e di Maria Pia Perracchio, piccoli pregiudicati originari della
Vucciria, da qualche tempo allontanatisi dalla malavita del quartiere in cui
risiedevano, la Kalsa, Turiddu era cresciuto nutrendosi di malaffare e di
violenza devoluta, il più delle volte, a titolo gratuito.
Alto
poco più di un metro e settanta, dall’ossatura robusta e muscolatura vigorosa,
carnagione chiara, occhi verdi, capelli neri e irsuti, Turiddu era ormai divenuto
un adulto, “un uomo”, com’era solito definirsi al cospetto dei suoi
genitori; un giovane emancipato e ormai maggiorenne, forte e sicuro di sé.
Egli
rassicurava suo padre e sua madre dicendo loro che non avrebbero dovuto temere
per lui, perché non sarebbe più incappato nelle maglie della Giustizia;
sosteneva che era divenuto scaltro e che si sarebbe potuto difendere facilmente
da quanti in passato gli avevano teso delle trappole e fatto trascorrere due
anni della sua vita all’interno dell’Istituto Penale per minorenni “Malaspina”
di Palermo, ove era stato recluso per rapina a mano armata e sequestro di
persona.
Turiddu
amava la via Maqueda, quell’antica arteria stradale della sua città natia.
Passeggiando lungo quella via diceva tra sé e sé, nel suo dialetto, “biedda 'sta strata, runni carruozze e
signuruni javanu passiannu, riscurriennu senza né arte né parte”,
traducibile nella lingua italiana corrente in “bella questa strada, dove carrozze e signori dell'alta borghesia
passeggiavano, discutendo senza avere un apparente lavoro.”.
Erano
da poco scoccate le ore 16:00 di quel venerdì 29 luglio 2016 quando Turiddu,
giunto in prossimità di via Discesa dei Giovenchi, ebbe un leggero mancamento.
L’aria
era afosa, giacché Palermo era sprofondata nel caldo del mese di luglio, che
era, a detta di alcuni meteorologi, tra i più caldi degli ultimi vent’anni e,
l’inquinamento, dovuto al traffico congestionato presente nel tessuto urbano
del capoluogo siciliano, aveva reso ancora più irrespirabile l’aria del centro
storico cittadino; così le difficili condizioni climatiche e ambientali
contribuirono in maniera importante a quel lieve malore che avvolse le membra
grevi del giovane.
Tuttavia
non era stato il caldo a farlo barcollare, né tantomeno le polveri sottili
presenti nell’aria, ma la nitida visione di una carrozza spinta da due cavalli,
bianco e nero, condotta da un cocchiere in livrea, all’interno della quale vi
erano due nobili uomini.
La
carrozza, finemente intarsiata e di stile barocco, sfrecciava lungo quell’antica
arteria stradale cittadina priva di quegli arredi urbani da poco collocati dal
Municipio, lungo il quale non vi era rimasta anima viva, come se il tempo e gli
uomini si fossero a un tratto fermati, così da consentire alla retina degli
occhi verdi del giovane Magrì di trattenere un’istantanea della Palermo di fine
Settecento, inizio Ottocento.
Che
cosa significava quella visione? Magrì non seppe darsi una risposta esaustiva.
Turiddu
si chinò, come a voler prendere qualcosa da terra, portando la mano destra al
petto, all’altezza del costato sinistro.
Le
tempie gli martellavano. Non si reggeva più sulle gambe, che si stavano pian
piano sgretolando come quei castelli di sabbia che i bambini costruiscono in
riva al mare in estate.
Svenne.
Si
ridestò dopo pochi minuti, circondato da un gruppo di persone che cercavano di
fargli coraggio, invitandolo a sorseggiare un bicchiere d’acqua e zucchero per
farlo riprendere.
Magrì
si alzò; ringraziò gli uomini e le donne che lo avevano soccorso e riprese
subito dopo la marcia in direzione della Stazione Ferroviaria.
Giunto
in prossimità dei Quattro Canti di città, mentre osservava sulla sua sinistra
la splendida fontana di Piazza Pretoria, Turiddu udì una voce che gli diceva di
non proseguire da lì, ma di svoltare in direzione di Corso Vittorio Emanuele,
verso Porta Felice.
Si
guardò attorno, ma non vide nessuno. Chi aveva parlato? Si sarebbe dovuto
cominciare a preoccupare della sua salute mentale?
Egli
non capì a che cosa quella voce d’uomo, gutturale e intensa, volesse alludere.
Pensò seriamente di essere impazzito. D’altronde aveva da sempre nutrito il
dubbio che “la pazzia”, quella vera, fosse scritta nel suo patrimonio
genetico, ma ubbidì a quella voce, di fantasma o essere vivente che fosse,
spinto da una forte sensazione di malessere interiore.
Qualche
ora dopo, quando ormai Turiddu era all’interno della sua stanza da letto, seppe
che gli "sbirri" quel
pomeriggio avevano arrestato Vito Gulì, Gianluca Ciprì, Renato Galioto, i suoi
tre amici, un’allegra combriccola che aveva spopolato nel quartiere per via di
tante bravate, con i quali egli, qualche giorno prima, aveva rapinato un
supermercato in piazza Nascè, a Borgo Vecchio.
La
rapina, che non era stata preventivamente autorizzata da Cosa Nostra,
aveva mandato su tutte le furie Don Ciccio Taiamonte, alias “à facci
tagghiata”, il capo della famiglia mafiosa del Borgo Vecchio.
Questi
riteneva che, essendo quell’esercizio commerciale in regola con il pagamento
del pizzo, fosse inconcepibile che al titolare, Nicola Capasanta, fosse stato
arrecato un danno economico, e che a lui fosse stato arrecato un danno
d’immagine al suo incondizionato potere criminale. Dopo la rapina il Taiamonte,
che si era più volte sfregato le mani quasi a togliersi la pelle, poiché era
forte il suo desiderio di punire i colpevoli, aveva mandato alcuni suoi sodali,
con testa il suo capo decina, Fofò Caparessa, a casa del Magrì. La delegazione di
Cosa Nostra che il Taiamonte aveva
spedito a casa di Magrì, rivolgendosi al padre del giovane Turiddu, un vecchio
truffatore del quartiere, chiese la testa del responsabile di quell’avventato
delitto, possibilmente su un piatto d’argento.
L’anziano
truffatore intavolò con quegli uomini una lunga ed estenuante trattativa, alla
fine della quale fu costretto a versare a favore della cassa della famiglia
mafiosa di Borgo Vecchio la metà della somma di denaro provento della rapina
perpetrata da suo figlio e dai suoi complici, all’incirca 1000 euro. Inoltre,
egli fu costretto a pagare 500 euro a favore della compagine mafiosa della
Kalsa, giacché era ritenuto colpevole di non aver impedito al figliolo di
commettere quel reato in danno di un esercizio commerciale già “messo a
posto”.
Turiddu
si stava per addormentare, quando ripensò al malore fisico che lo aveva colpito
nel pomeriggio, e soprattutto alla visione di quella carrozza fantasma che
correva lungo la via Maqueda; egli non riusciva a comprendere quello che gli
fosse veramente accaduto, né tantomeno riusciva a capacitarsi del perché qualcuno,
forse l’anima di qualche fuorilegge o di qualche “mariuolo” suo
conoscente, lo avesse voluto avvertire.
Non
riusciva proprio a persuadersi di come fosse riuscito a scampare all’arresto, a
differenza di Vito e degli altri due suoi amici. Egli, proprio grazie a quella
benedetta voce udita in via Maqueda, se l’era fatta franca. Si sforzava di
capire il perché fosse successo, senza riuscirvi.
Turiddu
si chiese, pertanto, se non fosse il caso di andare da quell'azzeccagarbugli
che suo padre gli aveva fatto conoscere, per comprendere se fosse stato emesso
un ordine di custodia cautelare anche nei suoi confronti per la rapina commessa
insieme ai suoi amici, o se fosse opportuno costituirsi alle Autorità.
Dopo
qualche minuto di ragionamenti contorti, uno dei quali lo aveva portato a
considerare anche lo stato di latitanza, chiuse gli occhi, sprofondando in un
sonno ristoratore dai benefici effetti collaterali.