Con la luminosa stagione del Liberty, lo stile "floreale" che ha raffinate manifestazioni in una serie di edifici per la committenza signorile (Villa Florio, Villa Igiea, villino Favaloro: opere tutte di Ernesto Basile), si esaurisce infatti - allo scoppio della prima guerra mondiale - il corso aureo della vicenda artistica palermitana, che tuttavia ha breve appendice in quella cosiddetta " architettura del Regime" che trova episodi di rilievo in alcuni edifici di aulica e chiusa monumentalità: l'imbocco neo - barocco di via Roma (1922-1936), il palazzo delle Poste (1928-35), l'antica sede del Banco di Sicilia (1932-38).Una evoluzione del gelido Neoclassico, investito da raffinati equilibri eclettici, è nel policromo Teatro Politeama in stile pompeiano (nel quale trovasi allogata la Civica Galleria d'arte Moderna, con interessanti opere di pittura e scultura dell'Otto e Novecento) e nel monumentale Teatro Massimo (1874 -95) di G. Filippo Basile, insigne prodotto severamente espressivo della città borghese, tempio della lirica fra i più prestigiosi d'Europa:eleganza greca compatta dinamica delle masse sono fuse nell'imponente edificio in risultati di coerente unità.
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martedì 29 gennaio 2008
Il Novecento Palermitano e il Liberty.
Con la luminosa stagione del Liberty, lo stile "floreale" che ha raffinate manifestazioni in una serie di edifici per la committenza signorile (Villa Florio, Villa Igiea, villino Favaloro: opere tutte di Ernesto Basile), si esaurisce infatti - allo scoppio della prima guerra mondiale - il corso aureo della vicenda artistica palermitana, che tuttavia ha breve appendice in quella cosiddetta " architettura del Regime" che trova episodi di rilievo in alcuni edifici di aulica e chiusa monumentalità: l'imbocco neo - barocco di via Roma (1922-1936), il palazzo delle Poste (1928-35), l'antica sede del Banco di Sicilia (1932-38).Una evoluzione del gelido Neoclassico, investito da raffinati equilibri eclettici, è nel policromo Teatro Politeama in stile pompeiano (nel quale trovasi allogata la Civica Galleria d'arte Moderna, con interessanti opere di pittura e scultura dell'Otto e Novecento) e nel monumentale Teatro Massimo (1874 -95) di G. Filippo Basile, insigne prodotto severamente espressivo della città borghese, tempio della lirica fra i più prestigiosi d'Europa:eleganza greca compatta dinamica delle masse sono fuse nell'imponente edificio in risultati di coerente unità.
La vita e le opere di Giacomo Serpotta.
Definito da Donald Garstang “il principale artista dello stucco in Europa” e da Giulio Carlo Argan “uno dei massimi scultori del Settecento”, Giacomo Serpotta (Palermo, 1656-1732) realizzò un’autentica rivoluzione stilistica e culturale, rinnovando la tecnica tradizionalmente povera dello stucco in arte ricercata e alla moda. Ebbe fama, successo e committenze dalle principali congregazioni e compagnie ecclesiastiche cittadine e siciliane: oggi i sontuosi apparati decorativi (suoi o di allievi membri della famiglia) sono presenti in una trentina fra oratori e chiese nella sola Palermo. Il suo “segreto” fu quello di aggiungere polvere di marmo alla calce e al gesso, fino ad allora normalmente usati per formare lo stucco: polvere di marmo che dava una inusitata patina di lucentezza alle figure. La difficoltà di questa tecnica, cioè la rapidità con cui doveva essere lavorato lo stucco prima che si asciugasse, richiedeva un artista particolarmente fantasioso nell’improvvisare dettagli nei volti, nei gesti e negli ornamenti. Accadde, così, che molte confraternite che, per motivi economici, non potevano permettersi il marmo, si rivolsero a Serpotta, il quale con lo stucco realizzava opere assai meno costose, ma dai risultati ugualmente brillanti. L’eccezionale tecnica di Serpotta si sposò al suo talento compositivo, all’esuberanza del gusto e alla capacità di organizzare spazio, immagini e forme nell’ambiente in cui doveva operare. Quel che continua ad essere sorprendente, infatti, dopo 350 anni, nell’opera di questo genio della plastica scultorea, è la sua qualità di magistrale regista di spettacoli d’incomparabile grazia, rispetto al contesto spaziale in cui sono poste le sculture, dove risulta stupefacente la loro orchestrazione plastica e fluttuante. Al punto che, forse, più che di decorazione, è più opportuno parlare di un raffinato teatro nel quale figure allegoriche, putti e “teatrini prospettici” possiedono una vitalità così intensa e morbida, da realizzare una dinamica ritmica quasi musicale. La vita. Poco si sa della sua vita, che non provenga da documenti riguardanti le opere. Nacque nel 1656 a Palermo, nel quartiere della Kalsa, da una famiglia di lapicidi e marmorari palermitani. Il padre Gaspare – autore di due gradevoli statue in Cattedrale – era un uomo difficile, amava i cavalli da corsa e nel 1656 rimase gravemente ferito in una rissa; fu poi arrestato e andò in galera, lasciando la famiglia in gravissime difficoltà economiche. Questa condizione di estrema povertà dei Serpotta e i loro legami di parentela con le principali famiglie artigiane della città fanno pensare che la formazione di Giacomo avvenne nelle botteghe locali, peraltro di eccellenti tradizioni. Certi suoi riferimenti al Barocco romano, più che dovuti ad una sua permanenza nella capitale (piuttosto dubbia), sono da ascrivere alla conoscenza di stampe coeve o a collaborazioni con artisti che a Roma avevano lavorato. Il primo incarico lo ebbe a Monreale, dove collaborò alla decorazione della chiesetta della Madonna dell’Itria. Ma il primo lavoro significativo lo fece nell’oratorio della compagnia della Carità in San Bartolomeo (1679), una delle più antiche di Palermo, distrutto nell’ultima guerra. Fu forse grazie a questo intervento che gli venne commissionata (1680) la statua di Carlo II di Spagna, fusa in bronzo a Messina e distrutta durante i moti del 1848. L’opera più antica che ci è pervenuta, invece, è costituita dai due altari del transetto della chiesa del Carmine, a Ballarò, con l’uso di gigantesche colonne tortili. Il primo capolavoro è l’apparato decorativo nell’oratorio del Rosario a Santa Cita (1685-1690), dove l’artista stuccatore diventa scultore a tutto tondo, padroneggiando sia i grandi spazi che i più piccoli dettagli; e dove si mescolano armoniosamente senso drammatico, sottigliezza psicologica e capacità comunicativa. Qui è importante la probabile collaborazione progettuale con Giacomo (o Paolo) Amato. Ma l’opera forse più equilibrata e solenne di Giacomo Serpotta è la decorazione per l’oratorio dei Santi Lorenzo e Francesco (1699-1706), dove la fusione tra lo stucco e i dipinti seicenteschi presenti nell’ambiente crea un’atmosfera da sacra rappresentazione barocca; un barocco non più grave e pesante, bensì giocoso e leggiadro. Le principali opere successive andranno verso una visione sempre più tendente al rococò: i modelli per i marmi scolpiti da Gioacchino Vitagliano a Casa Professa (primi ’700), gli stucchi nelle chiese di Sant’Agostino (1711), di San Francesco d’Assisi (1723) e di San Matteo (1728). Famiglia e allievi. Serpotta si circondò spesso di allievi e collaboratori, anche per gestire l’enorme quantità di commesse che riceveva. Alcune opere, così, seppure documentate a Giacomo, non sono a lui riferibili, se non nel disegno generale e in qualche parziale intervento. Tra questi collaboratori, che raggiunsero peraltro ottimi livelli di qualità, ci furono il fratello Giuseppe (Palermo, 1659-1719), autore degli stucchi dell’oratorio dei Falegnami; il figlio Procopio (Palermo o Monreale, 1679 - Caccamo 1755), considerato il vero erede del padre, cui si devono, fra l’altro, le decorazioni della chiesa dell’Assunta e degli oratori di Santa Caterina d’Alessandria e del Sabato a Casa Professa; e il nipote Giovan Maria Serpotta (notizie nella metà del ’700), figlio di Procopio. “Il progetto – sottolinea il sindaco Diego Cammarata – promuove la nostra città, ne mette in mostra un passato illustre, evidenziandone, nello stesso tempo, un presente fatto di cantieri aperti, di lavori per creare infrastrutture e sviluppo. I quattro itinerari serpottiani danno la possibilità ai turisti e anche agli stessi cittadini di conoscere un patrimonio prezioso; ma mostranno pure una città che ha fatto della riqualificazione e del recupero una delle sue priorità, che accende i riflettori sul suo cuore antico, con grande attenzione al decoro e all’arredo urbano”.
La Chiesa dello Spasimo.
La Chiesa dello Spasimo si trova nel quartiere dalla Kalsa, una delle parti più antiche della città di Palermo. Attorno al 1506 il giureconsulto palermitano Giacomo Basilicò, particolarmente devoto alla "Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce", dono' del terreno ai padri di Monte Oliveto per farvi edificare una chiesa e un convento. I lavori iniziarono nel 1509, ma non furono mai conclusi. Sotto la minaccia dell'invasione turca infatti, alcuni anni più tardi si rese necessario il consolidamento dei sistemi di difesa della città. Vennero costruite nuove cinte murarie e, attorno alla chiesa, nel 1537 venne fatto scavare un fossato proprio laddove doveva sorgere il convento. Nel 1569 il Senato di Palermo acquistò il complesso per esigenze militari e i monaci vennero fatti trasferire altrove. Nel 1520 l’edificio, di grande importanza a quel tempo per l’intera comunità palermitana, si era arricchito di un capolavoro d’inestimabile valore, lo Spasimo di Sicilia dipinto da Raffaello Sanzio, che raffigura appunto lo sgomento di Maria dinanzi al Cristo crollato sotto il peso della croce. Dopo il trasferimento dei monaci, la struttura cadde in disuso e l'allora viceré di Palermo Don Ferdinando D'Ayala lo donò a Filippo V re di Spagna in cambio di agevolazioni e di favori. Il dipinto rimase in Spagna e oggi è conservato al Museo del Prado di Madrid. A Catania, nella chiesa di San Francesco all’Immacolata, ne esiste una buona copia, realizzata su tavola nel 1541 da Jacopo Vignerio. Nel 1582 la chiesa venne adibita a sede di spettacoli pubblici, una specie di primo esempio di "teatro stabile" in Italia, ma nel secolo successivo un'epidemia di peste ne rese necessario l'utilizzo come lazzaretto per gli ammalati. Terminata l'epidemia, gli ambienti furono adibiti a granaio e a magazzino. A metà del settecento crollò la volta della navata centrale della chiesa, che non verrà mai più ricostruita. Una tela del pittore Giovanbattista Carini, conservata nella Civica Galleria d’arte moderna di Palermo, ci mostra la chiesa dello Spasimo nel 1836: le coperture delle volte sono assenti; il pavimento, sconnesso e devastato, è ricoperto dalle macerie dei muri crollati; il transetto è brutalmente serrato da un cancello di tavole di legno. Ovunque regna il silenzio e l’abbandono anche se, a sinistra, s’intravedono i profili di due personaggi che conversano. Della grande chiesa benedettina fondata nel 1509 nelle forme eleganti del tardo-gotico, non rimane più nulla. Dal 1855 al 1985, la struttura fu trasformata in ospizio per i poveri e nosocomio, ma l'architettura venne in gran parte sconvolta per poterne ricavare gli ambienti per i ricoverati. Nel 1985, grazie alla volontà dei cittadini e delle Pubbliche Amministrazioni, furono iniziati i lavori di recupero delle strutture fatiscenti. Oggi lo Spasimo ospita eventi culturali, rappresentazioni teatrali e musicali.
Bibliografia
Pani ca Meusa (Pane con la milza).
" Un deschetto, un capannello di persone che fanno ressa nell’attesa del proprio turno. Quelli che lo hanno già conquistato, in disparte, mangiano un soffice panino avvolto in un foglio di carta da pane, sempre più intriso dal grasso che gocciola dal panino. Ma tale è la soddisfazione di gustare una “focaccia”, che un po’ d’unto sulle mani è la cosa che preoccupa meno i golosi avventori. Dietro al deschetto un uomo in grembiule si muove ad intervalli e con gesti armonici, armato di una lunga forchetta a soli due denti, tira fuori da un pentolone d’alluminio, anch’esso dalla forma particolare e posto sul fornello in posizione inclinata, delle sottili fette di carne che altro non è che milza (interiora di vitello) e le distende al di sopra di un panino tagliato a metà, su di queste pone altre fette di tessuto polmonare (polmone di vitello) che in precedenza ha soffritto nella "saimi" (strutto), e infine completa il ripieno della focaccia con lo "scannaruzzato", cioè cartilagini tratte dalla gola dei vitelli. Poi, con rapida e studiata mossa della mano porta l’altra metà del panino sulla parte condita, le unisce schiacciandole affinché ne venga fuori il brodo superfluo e lo porge all’avventore che, come ultima operazione, gli spreme il succo di un limone. Una attenta osservazione della preparazione e i consigli del nostro carnezziere di fiducia, ci permetteranno di cimentarci, a casa, nella preparazione della “focaccia”. A monte di questa pietanza, servita tra le due metà di una soffice e calda pagnottella ricoperta di "giuggiulena" (semi di sesamo), a cui in precedenza è stata tolta la mollica, esiste una lunga storia che ebbe origine alcuni secoli fa in questa città. La comunità ebraica, presente Palermo fino al 1492, viveva all’interno di un proprio ghetto, ed era dedita a varie attività; alcuni erano abili nell’arte della macellazione ed esercitavano nei vari mattatoi della città. L’allora macello cittadino delle carni era ubicato, e lì rimase sino al 1837, nella parte più bassa del Seralcadio, odierno Capo. La macellazione e la vendita della carne avveniva attorno alla piazzetta detta dei caldumai, in pratica: venditori d’interiora. I macellai non si facevano ricompensare in denaro, poiché la loro religione lo vietava. In cambio del lavoro di macellazione, a titolo di regalìa, trattenevano per sè le interiora dell’animale, escluso il fegato che era ritenuto molto pregiato. Per ricavarne del denaro, inventarono una pietanza: dopo aver bollito, quindi sterilizzato le frattaglie, vendevano il prodotto ai "gentili" (cristiani) che lo mangiavano per strada e con le mani, (secondo una usanza trasmessa dai musulmani che mangiavano cibi senza l’uso di posate, riservando l’uso del coltello solo per il taglio e la frammentazione del cibo), unendo le frattaglie al pane e arricchendo il tutto con ricotta o formaggio. Il nostrale "cacciuttaru’", vecchia denominazione attribuitagli poiché anticamente preparava invece delle pagnottelle farcite solo con ricotta e formaggio (caciovallo fresco tagliato sottilissimo), inzuppando, prima di darle ai clienti, le pagnotte nello strutto caldo, dando loro così un vago sapore di carne. Le due attività precedentemente descritte si fondono, probabilmente dopo la scomparsa della popolazione ebrea, in un’unica attività, gestita dal “cacciuttaru”, il quale acquista al macello milza, polmone e trachea, per bollirli, riducendoli con abilità a piccoli pezzi con l’ausilio delle mani e del coltello.
Poi riverserà tutto in quel pentolone dove saranno soffritti con lo strutto ("saimi"). La “saimi” la inventarono gli spagnoli che la chiamarono "saim" (poi divenuta "saimi" per i palermitani), ed era creata industrialmente nel vecchio mattatoio di Palermo ed esportata in tutti i possedimenti spagnoli. Per le vie del centro storico molte sono le bancarelle (vedi foto) dove si possono gustare le rinomate "vastelle" o focacce per dirla in italiano. Tra le più note vi è quella della " vucciria" che da sempre occupa la stessa posizione nella Piazza Caracciolo proprio sotto il ristorante "Shanghai " di cui è proprietario il medesimo "Cacciuttaru’". Nell’ottocento nacquero le famose "Focaccerie" con tanto di tabella stile liberty, dove, seduti ai tavoli e serviti da eleganti camerieri, si potevano gustare le "vastelle" dopo aver risposto alla semplice domanda :” ‘a vuoli schietta o maritata?” a seconda se la si preferiva “schietta”, cioè solo con le carni previste oppure “maritata”, e in questo caso al ripieno veniva aggiunta la ricotta. La domanda, dal doppio significato, lasciava imperturbabili i clienti locali, mentre destava stupore negli avventori “forestieri”. Chiarito l’equivoco, ambedue le focacce venivano innaffiate da buon vinello locale. Uno dei locali più antichi esistenti a Palermo è la focacceria San Francesco, sita proprio di fronte alla Basilica francescana. La focacceria, in stile liberty, fu inaugurata nel 1834, ed è oggi uno dei cento locali storici più antichi d’Italia. Un altro locale rinomato, oggi al chiuso, è quello della Cala , l’antico porto di Palermo. “Da don Ciccio”, un omone con tanto di baffi curati alla garibaldina, con la sua postazione anticamente posta all’intero della "Cala". E tutti i lavoranti portuali, di buon' ora, si recavano presso la sua bancarella per mangiare mezza mafalda (tipica forma di pane palermitano) calda condita con la milza e polmone. Molti palermitani, nella propria abitazione, si cimentano a preparare il pane con la milza acquistando nella propria carnezzeria di fiducia tutto l’occorrente per preparare la pietanza ma, spesso, i sapori ottenuti somigliano soltanto vagamente a quelli delle focacce preparate dal "Cacciuttaru"."
Pani ca Meusa (Pane con la milza)
Lessate della milza e del polmone (meglio di vitella), fateli raffreddare e tagliateli a fettine. Con della pasta da pane preparate delle focaccie, agitatele su una piastra e cucinatele in forno caldissimo sino a quando saranno dorate. In una casseruola con due cucchiaiate di strutto scaldate le fettine di milza e polmone. Sfornate le focacce, imbottitele con la carne e servitele caldissime spruzzate d’alcune gocce di limone e sale. Una variante è “maritare” (sposare) le pagnotte aggiungendo alla farcitura scaglie di caciocavallo o ricotta, per poi soffriggerle qualche minuto nello strutto sfrigolante.
Pane c’a meusa - (Pane con la milza)
Ingredienti: gr.500 pasta da pane già lievitata; gr. 300 milza; strutto.
Procedimento: lessate la milza, fatela raffreddare e tagliatela a fettine. Con la pasta da pane fate dei piccoli panini, agitateli su una piastra e cucinateli in forno caldissimo sino a quando saranno dorati. In casseruola in 2 cucchiaiate di strutto scaldate le fettine di milza. Sfornate i panini, imbottendoli con la milza. Premete i panini perché la metà aderisca bene. Li servirete caldissimi, con formaggio o limone. Una variante sarà di “maritare” i panini imbottendoli anche con caciocavallo e ricotta soffriggendoli poi per qualche minuto nello strutto sfrigolante. Dovranno in ogni modo esser serviti caldissimi.
Il Palazzo Abatellis di Palermo.
29 Gennaio 2008.
Il Palazzo (fine del XV secolo), opera di Matteo Carnilivari all’epoca attivo a Palermo in cui attendeva ai lavori di palazzo Aiutamicristo, e splendido esempio d’architettura gotico-catalana, era la residenza di Francesco Abatellis (o Patella), maestro Portulano del Regno. Senza eredi, l’Abatellis dispone che il palazzo rimanga alla moglie, e che alla morte di essa il palazzo vi venga fondato un monastero di donne sotto il titolo di Santa Maria della Pietà. Quindi nel maggio 1526 un gruppo di suore dell’ordine domenicano, provenienti dal Monastero di Santa Caterina, si trasferirono nel palazzo. Furono necessarie numerosi adattamenti per renderlo adeguato alle esigenze della vita monastica, e come si può vedere da una pianta pubblicata dal Filippo Meli in Matteo Carnelivari e l’architettura del quattro e cinquecento in Palermo, le diverse ali furono frazionate per realizzare celle e corridoi. Inoltre all’esterno le finestre furono modificate e furono tolte le colonnine intermedie e, a volte anche certe elementi decorativi. Il palazzo prende allora il nome di "Monastero del Portulano". Per le esigenze della comunità religiosa fu necessaria l’edificazione di una cappella che venne costruita sul lato sinistro del palazzo occultando uno dei prospetti. Questa cappella fu costruita negli anni 1535-1541 dall’architetto Antonio Belguardo e prese il nome di "Chiesa di S. Maria della Pietà". Nel XVII secolo con la costruzione di una chiesa più grande (l'odierna Chiesa di Santa Maria della Pietà) con ingresso principale su via Butera, la cappella fu allora abolita e suddivisa in diversi vani. La parte anteriore con l’ingresso su via Alloro fu adibita a parlatorio mentre la parte retrostante fu trasformata in magazzini e tolto l’altare, fu realizzata una porta di accesso nel muro dell’abside. Durante la notte tra il 16 e il 17 aprile 1943 il palazzo venne colpito durante un bombardamento aereo e crollarono la loggia, il porticato, tutta l’ala sud-ovest e la parete della torre ovest. Le autorità decisero allora di provvedere al suo restauro e di trasformare il palazzo in "Galleria d’Arte per le collezioni d’arte medievale". La Soprintendenza ai Monumenti affidò all’architetto Mario Guiotto e successivamente all’architetto Armando Dillon i lavori di consolidamento e di restauro. Furono tolte le superfetazioni e furono ricostruiti il portico, la loggia e il salone centrale di cui era crollato il soffitto. Questi lavori furono ultimati a metà 1953 e fu allora chiamato Carlo Scarpa per curare l’allestimento e l’arredamento della Galleria che venne aperta al pubblico il 23 giugno del 1954. Scarpa realizzò anche diversi adattamenti di questi restauri per le necessità dell’allestimento.
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Il blogroll dei miei blog preferiti
La storia dei blog e di "Sicilia, la terra del Sole."
La storia del blog nasce nel 1997 in America, quando lo statunitense Dave Winter sviluppò un software che permise la prima pubblicazione di contenuti sul web. Nello stesso anno fu coniata la parola weblog, quando un appassionato di caccia statunitense decise di parlare delle proprie passioni con una pagina personale su Internet. Il blog può essere quindi considerato come una sorta di diario personale virtuale nel quale parlare delle proprie passioni attraverso immagini, video e contenuti testuali. In Italia, il successo dei blog arrivò nei primi anni 2000 con l’apertura di diversi servizi dedicati: tra i più famosi vi sono Blogger, AlterVista, WordPress, ma anche il famosissimo MySpace e Windows Live Space. Con l’avvento dei social network, tra il 2009 e il 2010, moltissimi portali dedicati al blogging chiusero. Ad oggi rimangono ancora attivi gli storici AlterVista, Blogger, WordPress e MySpace: sono tuttora i più utilizzati per la creazione di un blog e gli strumenti offerti sono alla portata di tutti. Questo blog, invece, nasce nel 2007; è un blog indipendente che viene aggiornato senza alcuna periodicità dal suo autore, Francesco Toscano. Il blog si prefigge di dare una informazione chiara e puntuale sui taluni fatti occorsi in Sicilia e, in particolare, nel territorio dei comuni in essa presenti. Chiunque può partecipare e arricchire i contenuti pubblicati nel blog: è opportuno, pur tuttavia, che chi lo desideri inoltri i propri comunicati all'indirizzo di posta elettronica in uso al webmaster che, ad ogni buon fine, è evidenziata in fondo alla pagina, così da poter arricchire la rubrica "Le vostre lettere", nata proprio con questo intento. Consapevole che la crescita di un blog è direttamente proporzionale al numero di post scritti ogni giorno, che è in sintesi il compendio dell'attività di ricerca e studio posta in essere dal suo creatore attraverso la consultazione di testi e documenti non solo reperibili in rete, ma prevalentemente presso le più vicine biblioteche di residenza, mi congedo da voi augurandovi una buona giornata. Cordialmente vostro, Francesco Toscano.