Sicilia bedda e amata,cantata e disprizzata...

  • A proposito degli alieni....

    Il saggio dal titolo "A proposito degli alieni....", di Francesco Toscano e Enrico Messina

    Sinossi: Fin dalla preistoria ci sono tracce evidenti del passaggio e dell’incontro tra esseri extraterrestri ed esseri umani. Da quando l’uomo è sulla Terra, per tutto il suo percorso evolutivo, passando dalle prime grandi civiltà, all’era moderna, sino ai giorni nostri, è stato sempre accompagnato da una presenza aliena. Lo dicono i fatti: nei reperti archeologici, nelle incisioni sulle rocce (sin qui rinvenute), nelle sculture, nei dipinti, in ciò che rimane degli antichi testi, sino ad arrivare alle prime foto e filmati oltre alle innumerevoli prove che oggi con le moderne tecnologie si raccolgono. Gli alieni ci sono sempre stati, forse già prima della comparsa del genere umano, e forse sono loro che ci hanno creato.

  • Gli antichi astronauti: dèi per il mondo antico, alieni per quello moderno.

    Il saggio dal titolo "Gli antichi astronauti: dèi per il mondo antico, alieni per quello moderno.", di Francesco Toscano

    Sinossi: Milioni di persone in tutto il mondo credono che in passato siamo stati visitati da esseri extraterrestri. E se fosse vero? Questo libro nasce proprio per questo motivo, cercare di dare una risposta, qualora ve ne fosse ancora bisogno, al quesito anzidetto. L`archeologia spaziale, o archeologia misteriosa, è definibile come la ricerca delle tracce, sotto forma di particolari reperti archeologici o delle testimonianze tramandate nel corso dei millenni, di presunti sbarchi sulla Terra di visitatori extraterrestri avvenuti all’alba della nostra civiltà.

  • Condannato senza possibilità d'appello

    Il romanzo breve dal titolo "Condannato senza possibilità d'appello.", di Francesco Toscano

    Sinossi: Le concezioni primitive intorno all`anima sono concordi nel considerare questa come indipendente nella sua esistenza dal corpo. Dopo la morte, sia che l`anima seguiti a esistere per sé senza alcun corpo o sia che entri di nuovo in un altro corpo di uomo o d`animale o di pianta e perfino di una sostanza inorganica, seguirà sempre il volere di Dio; cioè il volere dell’Eterno di consentire alle anime, da lui generate e create, di trascendere la vita materiale e innalzarsi ad un piano più alto dell’esistenza, imparando, pian piano, a comprendere il divino e tutto ciò che è ad esso riconducibile.

  • L'infanzia violata, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "L'infanzia violata", di Francesco Toscano

    Sinossi: Dovrebbero andare a scuola, giocare, fantasticare, cantare, essere allegri e vivere un'infanzia felice. Invece, almeno 300 milioni di bambini nel mondo sono costretti a lavorare e spesso a prostituirsi, a subire violenze a fare la guerra. E tutto ciò in aperta violazione delle leggi, dei regolamenti, delle convenzioni internazionali sui diritti dell'infanzia. La turpe problematica non è lontana dalla vostra quotidianità: è vicina al luogo in cui vivete, lavorate, crescete i vostri bambini. Ad ogni angolo dei quartieri delle città, dei paesi d'Italia, è possibile trovare un'infanzia rubata, un'infanzia violata.

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "I ru viddrani", di Francesco Toscano

    Sinossi: Non è semplice per un vecchietto agrigentino rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, che consta di svariati grammi di oro e di argento, che la sua badante rumena gli ha rubato prima di fuggire con il suo amante; egli pensa, allora, di rivolgersi a due anziani suoi compaesani che sa essere in buoni rapporti con il capo mafia del paesino rurale ove vive, per poter rientrare in possesso del maltolto. A seguito della mediazione dei "ru viddrani", Don Ciccio, "u pastranu", capo mafia della consorteria mafiosa di Punta Calura, che ha preso a cuore la vicenda umana di Domenico Sinatra, incarica i suoi sodali di mettersi sulle tracce della ladruncola e di far in modo che ella restituisca la refurtiva all`anziano uomo. Qualcosa, però, va storto e fra le parti in causa si acuisce un'acredine che amplifica l'entità del furto commesso, tanto che nel giro di pochi anni si arriva all`assassinio di Ingrid Doroteea Romanescu, la badante rumena resasi autrice del furto in questione.

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il fantasy dal titolo "E un giorno mi svegliai", di Francesco Toscano

    Sinossi: "E un giorno mi svegliai" è un fantasy. Il personaggio principale del libro, Salvatore Cuzzuperi, è un impiegato residente nella provincia di Palermo che rimane vittima di un'esperienza di abduction. Il Cuzzuperi vivrà l'esperienza paranormale del suo rapimento da parte degli alieni lontano anni luce dal pianeta Terra e si troverà coinvolto nell'aspra e millenaria lotta tra gli Anunnaki, i Malachim loro sudditi, e i Rettiliani, degli alieni aventi la forma fisica di una lucertola evoluta. I Rettiliani, scoprirà il Cuzzuperi, cercano di impossessarsi degli esseri umani perché dotati di Anima, questa forma di energia ancestrale e divina, riconducibile al Dio Creatore dell'Universo, in grado di ridare la vita ad alcune specie aliene dotate di un Dna simile a quello dell'uomo, fra cui gli stessi Rettiliani e gli Anunnaki. Il Cuzzuperi perderà pian piano la sua umanità divenendo un Igigi ammesso a cibarsi delle conoscenze degli "antichi dèi", ed infine, accolto come un nuovo membro della "fratellanza cosmica".

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "I ru viddrani", di Francesco Toscano

    Sinossi: Non è semplice per un vecchietto agrigentino rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, che consta di svariati grammi di oro e di argento, che la sua badante rumena gli ha rubato prima di fuggire con il suo amante; egli pensa, allora, di rivolgersi a due anziani suoi compaesani che sa essere in buoni rapporti con il capo mafia del paesino rurale ove vive, per poter rientrare in possesso del maltolto. A seguito della mediazione dei “ru viddrani”, Don Ciccio, “ù pastranu”, capo mafia della consorteria mafiosa di Punta Calura, che ha preso a cuore la vicenda umana di Domenico Sinatra, incarica i suoi sodali di mettersi sulle tracce della ladruncola e di far in modo che ella restituisca la refurtiva all`anziano uomo. Qualcosa, però, va storto e fra le parti in causa si acuisce un’acredine che amplifica l’entità del furto commesso, tanto che nel giro di pochi anni si arriva all`assassinio di Ingrid Doroteea ROMANESCU, la badante rumena resasi autrice del furto in questione.

  • Naufraghi nello spazio profondo, di Francesco Toscano

    Il romanzo di fantascienza dal titolo "Naufraghi nello spazio profondo ", di Francesco Toscano

    Sinossi: In un futuro distopico l’umanità, all’apice della sua evoluzione e prossima all’estinzione, sarà costretta, inevitabilmente, a lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, alla ricerca di un pianeta alieno in cui poter vivere, sfruttando le conoscenze del suo tempo. Inizia così l’avventura del giovane Joseph MIGLIORINI, di professione ingegnere, e di altri giovani terrestri, un medico, un geologo, un ingegnere edile, che, da lì a poco, a bordo di una navetta spaziale allestita dal loro Governo, sarebbero stati costretti a raggiungere il pianeta Marte, il “nostro vicino cosmico”, al fine di atterrare nei pressi del suo polo nord ove, anni prima, dei robot costruttori avevano realizzato una stazione spaziale permanente, denominata “New Millenium”; tutto questo affinché parte dell’umanità sopravvissuta agli eventi nefasti e apocalittici potesse prosperare su quella landa desolata, tanto ostile alla vita in genere, giacché ritenuta unico habitat possibile e fruibile ai pochi sopravvissuti e alla loro discendenza.

  • Malacarne, di Francesco Toscano

    Libro/E-book: Malacarne, di Francesco Toscano

    Sinossi: Nella primavera dell'anno 2021 a Palermo, quando la pandemia dovuta al diffondersi del virus denominato Covid-19 sembrerebbe essere stata sconfitta dalla scienza, malgrado i milioni di morti causati in tutto il mondo, un giovane, cresciuto ai margini della società, intraneo alla famiglia mafiosa di Palermo - Borgo Vecchio, decide, malgrado il suo solenne giuramento di fedeltà a Cosa Nostra, di vuotare il sacco e di pentirsi dei crimini commessi, così da consentire alla magistratura inquirente di assicurare alla giustizia oltre sessanta tra capi e gregari dei mandamenti mafiosi di Brancaccio, Porta Nuova, Santa Maria Gesù. Mentre Francesco Salvatore Magrì, inteso Turiddu, decide di collaborare con la Giustizia, ormai stanco della sua miserevole vita, qualcun altro dall'altra parte della Sicilia, che da anni ha votato la sua vita alla Legalità e alla Giustizia, a costo di sacrificare sé stesso e gli affetti più cari, si organizza e profonde il massimo dell'impegno affinché lo Stato, a cui ha giurato fedeltà perenne, possa continuare a regnare sovrano e i cittadini possano vivere liberi dalle prevaricazioni mafiose. Così, in un turbinio di emozioni e di passioni si intrecciano le vite di numerosi criminali, dei veri e propri Malacarne, e quella dei Carabinieri del Reparto Operativo dei Comandi Provinciali di Palermo e Reggio di Calabria che, da tanti anni ormai, cercano di disarticolare le compagini mafiose operanti in quei territori. Una storia umana quella di Turiddu Magrì che ha dell'incredibile: prima rapinatore, poi barbone e mendicante, e infine, dopo essere stato "punciutu" e affiliato a Cosa Nostra palermitana, il grimaldello nelle mani della Procura della Repubblica di Palermo grazie al quale potere scardinare gran parte di quell'organizzazione criminale in cui il giovane aveva sin a quel momento vissuto e operato.

  • NAUFRAGHI NELLO SPAZIO PROFONDO : I 12 MARZIANI, GLI ULTIMI SUPERSTITI DELLA SPECIE UMANA , di Francesco Toscano

    Libro/E-book: NAUFRAGHI NELLO SPAZIO PROFONDO : I 12 MARZIANI, GLI ULTIMI SUPERSTITI DELLA SPECIE UMANA,di Francesco Toscano

    Sinossi: In un futuro distopico l’umanità, all’apice della sua evoluzione e prossima all’estinzione, sarà costretta, inevitabilmente, a lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, alla ricerca di un pianeta alieno in cui poter vivere, sfruttando le conoscenze del suo tempo. Inizia così l’avventura del giovane Joseph MIGLIORINI, di professione ingegnere, e di altri giovani terrestri, un medico, un geologo, un ingegnere edile, che, da lì a poco, a bordo di una navetta spaziale allestita dal loro Governo, sarebbero stati costretti a raggiungere il pianeta Marte, il “nostro vicino cosmico”, al fine di atterrare nei pressi del suo polo nord ove, anni prima, dei robot costruttori avevano realizzato una stazione spaziale permanente, denominata “New Millenium”; tutto questo affinché parte dell’umanità sopravvissuta agli eventi nefasti e apocalittici potesse prosperare su quella landa desolata, tanto ostile alla vita in genere, giacché ritenuta unico habitat possibile e fruibile ai pochi sopravvissuti e alla loro discendenza. Nel giro di pochi anni, pur tuttavia, a differenza di quanto auspicatosi dagli scienziati che avevano ideato e progettato la missione Marte, l’ingegnere MIGLIORINI e la sua progenie sarebbero rimasti coinvolti in un’aspra e decennale guerra combattuta da alcuni coloni di stanza sul pianeta Marte e da altri di stanza sulla superficie polverosa della nostra Luna, per l’approvvigionamento delle ultime materie prime sino ad allora rimaste, oltre che per l’accaparramento del combustibile, costituito da materia esotica e non più fossile, di cui si alimentavano i motori per viaggi a velocità superluminale delle loro superbe astronavi; ciò al fine di ridurre le distanze siderali dello spazio profondo e al fine di generare la contrazione dello spazio-tempo per la formazione di wormhole, ovvero dei cunicoli gravitazionali, che avrebbero consentito loro di percorrere le enormi distanze interstellari in un batter di ciglia...






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martedì 29 gennaio 2008

Il Novecento Palermitano e il Liberty.

29 Gennaio 2008.


Con la luminosa stagione del Liberty, lo stile "floreale" che ha raffinate manifestazioni in una serie di edifici per la committenza signorile (Villa Florio, Villa Igiea, villino Favaloro: opere tutte di Ernesto Basile), si esaurisce infatti - allo scoppio della prima guerra mondiale - il corso aureo della vicenda artistica palermitana, che tuttavia ha breve appendice in quella cosiddetta " architettura del Regime" che trova episodi di rilievo in alcuni edifici di aulica e chiusa monumentalità: l'imbocco neo - barocco di via Roma (1922-1936), il palazzo delle Poste (1928-35), l'antica sede del Banco di Sicilia (1932-38).Una evoluzione del gelido Neoclassico, investito da raffinati equilibri eclettici, è nel policromo Teatro Politeama in stile pompeiano (nel quale trovasi allogata la Civica Galleria d'arte Moderna, con interessanti opere di pittura e scultura dell'Otto e Novecento) e nel monumentale Teatro Massimo (1874 -95) di G. Filippo Basile, insigne prodotto severamente espressivo della città borghese, tempio della lirica fra i più prestigiosi d'Europa:eleganza greca compatta dinamica delle masse sono fuse nell'imponente edificio in risultati di coerente unità.

Alla seconda metà dell'Ottocento appartiene pure l'istituzione nell'ex convento dei Padri Filippini all'Olivella del Museo Archeologico Regionale, ricco di importantissimi reperti del mondo classico। Contiene materiali preistorici, fenicio - punici ed egizi, testimonianze dell'antica civiltà sicula, collezioni di arte etrusca , ceramiche greche, epigrafi provenienti da vari siti della Sicilia, reperti di Tindari e Solùnto; gli elementi di maggiore interesse sono le celebri metope di Selinunte e l'ariete bronzeo di età ellenistica proveniente da Siracusa। E' in questo severo e massicio edificio che il visitatore avrà il primo emozionante incontro col mistero e col fascino dell'archeologia. Ma non qui soltanto: e infatti, se disposto a una piccola impresa sportiva, nelle immediate vicinanze della città, nella contrada rivierasca dell'Addaura, potrà vivere una eccezinale esperienza. Qui, sulle pendici settentrionali del monte Pellegrino prospettanti sull'azzurro mare del golfo, una vasta grotta custodisce da diecimila anni il suggestivo ed ermetico messaggio dell'arte primitiva e della vita di una popolazione vissuta nel Paleolitico Superiore: sono nitidi graffiti raffiguranti animali (cervi e bovini) e strane figure umane senza mani e piedi, cacciatori e guerrieri intenti forse in una danza rituale di iniziazione, alcuni dei quali col viso nascosto da una maschera a becco d'uccello. Più avanti, sul promontorio di Capo Gallo, la "grotta Regina" conserva varie iscrizioni puniche dipinte sulle sue pareti. Una così straordinaria digressione nella preistoria non distragga, però, dalla visualizzazione degli ultimi prodotti edilizi che compongono il volto "bello" della città, tasselli dello splendido mosaico di un passato in grado ancora di suscitare emozioni estetiche: appartengono ai primi decenni del Novecento.

La vita e le opere di Giacomo Serpotta.

29 Gennaio 2008.

Definito da Donald Garstang “il principale artista dello stucco in Europa” e da Giulio Carlo Argan “uno dei massimi scultori del Settecento”, Giacomo Serpotta (Palermo, 1656-1732) realizzò un’autentica rivoluzione stilistica e culturale, rinnovando la tecnica tradizionalmente povera dello stucco in arte ricercata e alla moda. Ebbe fama, successo e committenze dalle principali congregazioni e compagnie ecclesiastiche cittadine e siciliane: oggi i sontuosi apparati decorativi (suoi o di allievi membri della famiglia) sono presenti in una trentina fra oratori e chiese nella sola Palermo. Il suo “segreto” fu quello di aggiungere polvere di marmo alla calce e al gesso, fino ad allora normalmente usati per formare lo stucco: polvere di marmo che dava una inusitata patina di lucentezza alle figure. La difficoltà di questa tecnica, cioè la rapidità con cui doveva essere lavorato lo stucco prima che si asciugasse, richiedeva un artista particolarmente fantasioso nell’improvvisare dettagli nei volti, nei gesti e negli ornamenti. Accadde, così, che molte confraternite che, per motivi economici, non potevano permettersi il marmo, si rivolsero a Serpotta, il quale con lo stucco realizzava opere assai meno costose, ma dai risultati ugualmente brillanti. L’eccezionale tecnica di Serpotta si sposò al suo talento compositivo, all’esuberanza del gusto e alla capacità di organizzare spazio, immagini e forme nell’ambiente in cui doveva operare. Quel che continua ad essere sorprendente, infatti, dopo 350 anni, nell’opera di questo genio della plastica scultorea, è la sua qualità di magistrale regista di spettacoli d’incomparabile grazia, rispetto al contesto spaziale in cui sono poste le sculture, dove risulta stupefacente la loro orchestrazione plastica e fluttuante. Al punto che, forse, più che di decorazione, è più opportuno parlare di un raffinato teatro nel quale figure allegoriche, putti e “teatrini prospettici” possiedono una vitalità così intensa e morbida, da realizzare una dinamica ritmica quasi musicale. La vita. Poco si sa della sua vita, che non provenga da documenti riguardanti le opere. Nacque nel 1656 a Palermo, nel quartiere della Kalsa, da una famiglia di lapicidi e marmorari palermitani. Il padre Gaspare – autore di due gradevoli statue in Cattedrale – era un uomo difficile, amava i cavalli da corsa e nel 1656 rimase gravemente ferito in una rissa; fu poi arrestato e andò in galera, lasciando la famiglia in gravissime difficoltà economiche. Questa condizione di estrema povertà dei Serpotta e i loro legami di parentela con le principali famiglie artigiane della città fanno pensare che la formazione di Giacomo avvenne nelle botteghe locali, peraltro di eccellenti tradizioni. Certi suoi riferimenti al Barocco romano, più che dovuti ad una sua permanenza nella capitale (piuttosto dubbia), sono da ascrivere alla conoscenza di stampe coeve o a collaborazioni con artisti che a Roma avevano lavorato. Il primo incarico lo ebbe a Monreale, dove collaborò alla decorazione della chiesetta della Madonna dell’Itria. Ma il primo lavoro significativo lo fece nell’oratorio della compagnia della Carità in San Bartolomeo (1679), una delle più antiche di Palermo, distrutto nell’ultima guerra. Fu forse grazie a questo intervento che gli venne commissionata (1680) la statua di Carlo II di Spagna, fusa in bronzo a Messina e distrutta durante i moti del 1848. L’opera più antica che ci è pervenuta, invece, è costituita dai due altari del transetto della chiesa del Carmine, a Ballarò, con l’uso di gigantesche colonne tortili. Il primo capolavoro è l’apparato decorativo nell’oratorio del Rosario a Santa Cita (1685-1690), dove l’artista stuccatore diventa scultore a tutto tondo, padroneggiando sia i grandi spazi che i più piccoli dettagli; e dove si mescolano armoniosamente senso drammatico, sottigliezza psicologica e capacità comunicativa. Qui è importante la probabile collaborazione progettuale con Giacomo (o Paolo) Amato. Ma l’opera forse più equilibrata e solenne di Giacomo Serpotta è la decorazione per l’oratorio dei Santi Lorenzo e Francesco (1699-1706), dove la fusione tra lo stucco e i dipinti seicenteschi presenti nell’ambiente crea un’atmosfera da sacra rappresentazione barocca; un barocco non più grave e pesante, bensì giocoso e leggiadro. Le principali opere successive andranno verso una visione sempre più tendente al rococò: i modelli per i marmi scolpiti da Gioacchino Vitagliano a Casa Professa (primi ’700), gli stucchi nelle chiese di Sant’Agostino (1711), di San Francesco d’Assisi (1723) e di San Matteo (1728). Famiglia e allievi. Serpotta si circondò spesso di allievi e collaboratori, anche per gestire l’enorme quantità di commesse che riceveva. Alcune opere, così, seppure documentate a Giacomo, non sono a lui riferibili, se non nel disegno generale e in qualche parziale intervento. Tra questi collaboratori, che raggiunsero peraltro ottimi livelli di qualità, ci furono il fratello Giuseppe (Palermo, 1659-1719), autore degli stucchi dell’oratorio dei Falegnami; il figlio Procopio (Palermo o Monreale, 1679 - Caccamo 1755), considerato il vero erede del padre, cui si devono, fra l’altro, le decorazioni della chiesa dell’Assunta e degli oratori di Santa Caterina d’Alessandria e del Sabato a Casa Professa; e il nipote Giovan Maria Serpotta (notizie nella metà del ’700), figlio di Procopio. “Il progetto – sottolinea il sindaco Diego Cammarata – promuove la nostra città, ne mette in mostra un passato illustre, evidenziandone, nello stesso tempo, un presente fatto di cantieri aperti, di lavori per creare infrastrutture e sviluppo. I quattro itinerari serpottiani danno la possibilità ai turisti e anche agli stessi cittadini di conoscere un patrimonio prezioso; ma mostranno pure una città che ha fatto della riqualificazione e del recupero una delle sue priorità, che accende i riflettori sul suo cuore antico, con grande attenzione al decoro e all’arredo urbano”.



La Chiesa dello Spasimo.

29 Gennaio 2008.


La Chiesa dello Spasimo si trova nel quartiere dalla Kalsa, una delle parti più antiche della città di Palermo. Attorno al 1506 il giureconsulto palermitano Giacomo Basilicò, particolarmente devoto alla "Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce", dono' del terreno ai padri di Monte Oliveto per farvi edificare una chiesa e un convento. I lavori iniziarono nel 1509, ma non furono mai conclusi. Sotto la minaccia dell'invasione turca infatti, alcuni anni più tardi si rese necessario il consolidamento dei sistemi di difesa della città. Vennero costruite nuove cinte murarie e, attorno alla chiesa, nel 1537 venne fatto scavare un fossato proprio laddove doveva sorgere il convento. Nel 1569 il Senato di Palermo acquistò il complesso per esigenze militari e i monaci vennero fatti trasferire altrove. Nel 1520 l’edificio, di grande importanza a quel tempo per l’intera comunità palermitana, si era arricchito di un capolavoro d’inestimabile valore, lo Spasimo di Sicilia dipinto da Raffaello Sanzio, che raffigura appunto lo sgomento di Maria dinanzi al Cristo crollato sotto il peso della croce. Dopo il trasferimento dei monaci, la struttura cadde in disuso e l'allora viceré di Palermo Don Ferdinando D'Ayala lo donò a Filippo V re di Spagna in cambio di agevolazioni e di favori. Il dipinto rimase in Spagna e oggi è conservato al Museo del Prado di Madrid. A Catania, nella chiesa di San Francesco all’Immacolata, ne esiste una buona copia, realizzata su tavola nel 1541 da Jacopo Vignerio. Nel 1582 la chiesa venne adibita a sede di spettacoli pubblici, una specie di primo esempio di "teatro stabile" in Italia, ma nel secolo successivo un'epidemia di peste ne rese necessario l'utilizzo come lazzaretto per gli ammalati. Terminata l'epidemia, gli ambienti furono adibiti a granaio e a magazzino. A metà del settecento crollò la volta della navata centrale della chiesa, che non verrà mai più ricostruita. Una tela del pittore Giovanbattista Carini, conservata nella Civica Galleria d’arte moderna di Palermo, ci mostra la chiesa dello Spasimo nel 1836: le coperture delle volte sono assenti; il pavimento, sconnesso e devastato, è ricoperto dalle macerie dei muri crollati; il transetto è brutalmente serrato da un cancello di tavole di legno. Ovunque regna il silenzio e l’abbandono anche se, a sinistra, s’intravedono i profili di due personaggi che conversano. Della grande chiesa benedettina fondata nel 1509 nelle forme eleganti del tardo-gotico, non rimane più nulla. Dal 1855 al 1985, la struttura fu trasformata in ospizio per i poveri e nosocomio, ma l'architettura venne in gran parte sconvolta per poterne ricavare gli ambienti per i ricoverati. Nel 1985, grazie alla volontà dei cittadini e delle Pubbliche Amministrazioni, furono iniziati i lavori di recupero delle strutture fatiscenti. Oggi lo Spasimo ospita eventi culturali, rappresentazioni teatrali e musicali.

Bibliografia

* Anna Maria La Fisca e Giovanni Palazzo, Santa Maria dello Spasimo, Edizioni Guida, Palermo 1997.

Pani ca Meusa (Pane con la milza).

29 Gennaio 2008.


" Un deschetto, un capannello di persone che fanno ressa nell’attesa del proprio turno. Quelli che lo hanno già conquistato, in disparte, mangiano un soffice panino avvolto in un foglio di carta da pane, sempre più intriso dal grasso che gocciola dal panino. Ma tale è la soddisfazione di gustare una “focaccia”, che un po’ d’unto sulle mani è la cosa che preoccupa meno i golosi avventori. Dietro al deschetto un uomo in grembiule si muove ad intervalli e con gesti armonici, armato di una lunga forchetta a soli due denti, tira fuori da un pentolone d’alluminio, anch’esso dalla forma particolare e posto sul fornello in posizione inclinata, delle sottili fette di carne che altro non è che milza (interiora di vitello) e le distende al di sopra di un panino tagliato a metà, su di queste pone altre fette di tessuto polmonare (polmone di vitello) che in precedenza ha soffritto nella "saimi" (strutto), e infine completa il ripieno della focaccia con lo "scannaruzzato", cioè cartilagini tratte dalla gola dei vitelli. Poi, con rapida e studiata mossa della mano porta l’altra metà del panino sulla parte condita, le unisce schiacciandole affinché ne venga fuori il brodo superfluo e lo porge all’avventore che, come ultima operazione, gli spreme il succo di un limone. Una attenta osservazione della preparazione e i consigli del nostro carnezziere di fiducia, ci permetteranno di cimentarci, a casa, nella preparazione della “focaccia”. A monte di questa pietanza, servita tra le due metà di una soffice e calda pagnottella ricoperta di "giuggiulena" (semi di sesamo), a cui in precedenza è stata tolta la mollica, esiste una lunga storia che ebbe origine alcuni secoli fa in questa città. La comunità ebraica, presente Palermo fino al 1492, viveva all’interno di un proprio ghetto, ed era dedita a varie attività; alcuni erano abili nell’arte della macellazione ed esercitavano nei vari mattatoi della città. L’allora macello cittadino delle carni era ubicato, e lì rimase sino al 1837, nella parte più bassa del Seralcadio, odierno Capo. La macellazione e la vendita della carne avveniva attorno alla piazzetta detta dei caldumai, in pratica: venditori d’interiora. I macellai non si facevano ricompensare in denaro, poiché la loro religione lo vietava. In cambio del lavoro di macellazione, a titolo di regalìa, trattenevano per sè le interiora dell’animale, escluso il fegato che era ritenuto molto pregiato. Per ricavarne del denaro, inventarono una pietanza: dopo aver bollito, quindi sterilizzato le frattaglie, vendevano il prodotto ai "gentili" (cristiani) che lo mangiavano per strada e con le mani, (secondo una usanza trasmessa dai musulmani che mangiavano cibi senza l’uso di posate, riservando l’uso del coltello solo per il taglio e la frammentazione del cibo), unendo le frattaglie al pane e arricchendo il tutto con ricotta o formaggio. Il nostrale "cacciuttaru’", vecchia denominazione attribuitagli poiché anticamente preparava invece delle pagnottelle farcite solo con ricotta e formaggio (caciovallo fresco tagliato sottilissimo), inzuppando, prima di darle ai clienti, le pagnotte nello strutto caldo, dando loro così un vago sapore di carne. Le due attività precedentemente descritte si fondono, probabilmente dopo la scomparsa della popolazione ebrea, in un’unica attività, gestita dal “cacciuttaru”, il quale acquista al macello milza, polmone e trachea, per bollirli, riducendoli con abilità a piccoli pezzi con l’ausilio delle mani e del coltello.
Poi riverserà tutto in quel pentolone dove saranno soffritti con lo strutto ("saimi"). La “saimi” la inventarono gli spagnoli che la chiamarono "saim" (poi divenuta "saimi" per i palermitani), ed era creata industrialmente nel vecchio mattatoio di Palermo ed esportata in tutti i possedimenti spagnoli. Per le vie del centro storico molte sono le bancarelle (vedi foto) dove si possono gustare le rinomate "vastelle" o focacce per dirla in italiano. Tra le più note vi è quella della " vucciria" che da sempre occupa la stessa posizione nella Piazza Caracciolo proprio sotto il ristorante "Shanghai " di cui è proprietario il medesimo "Cacciuttaru’". Nell’ottocento nacquero le famose "Focaccerie" con tanto di tabella stile liberty, dove, seduti ai tavoli e serviti da eleganti camerieri, si potevano gustare le "vastelle" dopo aver risposto alla semplice domanda :” ‘a vuoli schietta o maritata?” a seconda se la si preferiva “schietta”, cioè solo con le carni previste oppure “maritata”, e in questo caso al ripieno veniva aggiunta la ricotta. La domanda, dal doppio significato, lasciava imperturbabili i clienti locali, mentre destava stupore negli avventori “forestieri”. Chiarito l’equivoco, ambedue le focacce venivano innaffiate da buon vinello locale. Uno dei locali più antichi esistenti a Palermo è la focacceria San Francesco, sita proprio di fronte alla Basilica francescana. La focacceria, in stile liberty, fu inaugurata nel 1834, ed è oggi uno dei cento locali storici più antichi d’Italia. Un altro locale rinomato, oggi al chiuso, è quello della Cala , l’antico porto di Palermo. “Da don Ciccio”, un omone con tanto di baffi curati alla garibaldina, con la sua postazione anticamente posta all’intero della "Cala". E tutti i lavoranti portuali, di buon' ora, si recavano presso la sua bancarella per mangiare mezza mafalda (tipica forma di pane palermitano) calda condita con la milza e polmone. Molti palermitani, nella propria abitazione, si cimentano a preparare il pane con la milza acquistando nella propria carnezzeria di fiducia tutto l’occorrente per preparare la pietanza ma, spesso, i sapori ottenuti somigliano soltanto vagamente a quelli delle focacce preparate dal "Cacciuttaru"."

Pani ca Meusa (Pane con la milza)

Lessate della milza e del polmone (meglio di vitella), fateli raffreddare e tagliateli a fettine. Con della pasta da pane preparate delle focaccie, agitatele su una piastra e cucinatele in forno caldissimo sino a quando saranno dorate. In una casseruola con due cucchiaiate di strutto scaldate le fettine di milza e polmone. Sfornate le focacce, imbottitele con la carne e servitele caldissime spruzzate d’alcune gocce di limone e sale. Una variante è “maritare” (sposare) le pagnotte aggiungendo alla farcitura scaglie di caciocavallo o ricotta, per poi soffriggerle qualche minuto nello strutto sfrigolante.

Pane c’a meusa - (Pane con la milza)

Ingredienti: gr.500 pasta da pane già lievitata; gr. 300 milza; strutto.
Procedimento: lessate la milza, fatela raffreddare e tagliatela a fettine. Con la pasta da pane fate dei piccoli panini, agitateli su una piastra e cucinateli in forno caldissimo sino a quando saranno dorati. In casseruola in 2 cucchiaiate di strutto scaldate le fettine di milza. Sfornate i panini, imbottendoli con la milza. Premete i panini perché la metà aderisca bene. Li servirete caldissimi, con formaggio o limone. Una variante sarà di “maritare” i panini imbottendoli anche con caciocavallo e ricotta soffriggendoli poi per qualche minuto nello strutto sfrigolante. Dovranno in ogni modo esser serviti caldissimi.

Il Palazzo Abatellis di Palermo.


29 Gennaio 2008.


Il Palazzo (fine del XV secolo), opera di Matteo Carnilivari all’epoca attivo a Palermo in cui attendeva ai lavori di palazzo Aiutamicristo, e splendido esempio d’architettura gotico-catalana, era la residenza di Francesco Abatellis (o Patella), maestro Portulano del Regno. Senza eredi, l’Abatellis dispone che il palazzo rimanga alla moglie, e che alla morte di essa il palazzo vi venga fondato un monastero di donne sotto il titolo di Santa Maria della Pietà. Quindi nel maggio 1526 un gruppo di suore dell’ordine domenicano, provenienti dal Monastero di Santa Caterina, si trasferirono nel palazzo. Furono necessarie numerosi adattamenti per renderlo adeguato alle esigenze della vita monastica, e come si può vedere da una pianta pubblicata dal Filippo Meli in Matteo Carnelivari e l’architettura del quattro e cinquecento in Palermo, le diverse ali furono frazionate per realizzare celle e corridoi. Inoltre all’esterno le finestre furono modificate e furono tolte le colonnine intermedie e, a volte anche certe elementi decorativi. Il palazzo prende allora il nome di "Monastero del Portulano". Per le esigenze della comunità religiosa fu necessaria l’edificazione di una cappella che venne costruita sul lato sinistro del palazzo occultando uno dei prospetti. Questa cappella fu costruita negli anni 1535-1541 dall’architetto Antonio Belguardo e prese il nome di "Chiesa di S. Maria della Pietà". Nel XVII secolo con la costruzione di una chiesa più grande (l'odierna Chiesa di Santa Maria della Pietà) con ingresso principale su via Butera, la cappella fu allora abolita e suddivisa in diversi vani. La parte anteriore con l’ingresso su via Alloro fu adibita a parlatorio mentre la parte retrostante fu trasformata in magazzini e tolto l’altare, fu realizzata una porta di accesso nel muro dell’abside. Durante la notte tra il 16 e il 17 aprile 1943 il palazzo venne colpito durante un bombardamento aereo e crollarono la loggia, il porticato, tutta l’ala sud-ovest e la parete della torre ovest. Le autorità decisero allora di provvedere al suo restauro e di trasformare il palazzo in "Galleria d’Arte per le collezioni d’arte medievale". La Soprintendenza ai Monumenti affidò all’architetto Mario Guiotto e successivamente all’architetto Armando Dillon i lavori di consolidamento e di restauro. Furono tolte le superfetazioni e furono ricostruiti il portico, la loggia e il salone centrale di cui era crollato il soffitto. Questi lavori furono ultimati a metà 1953 e fu allora chiamato Carlo Scarpa per curare l’allestimento e l’arredamento della Galleria che venne aperta al pubblico il 23 giugno del 1954. Scarpa realizzò anche diversi adattamenti di questi restauri per le necessità dell’allestimento.

Il museo



Nelle splendide sale della galleria hanno trovato posto le opere provenienti da acquisizioni, donazioni ed incameramenti dei beni degli enti religiosi soppressi (1866). Prima di questa sede le opere facevano parte della Pinacoteca della Regia Università e, dal 1866 in poi, delle collezioni del Museo Nazionale di Palermo, divenuto Museo Regionale in seguito al trasferimento delle competenze sui beni culturali dallo Stato alla Regione siciliana, in virtù dello statuto. Al piano terra si trovano, fra i tanti manufatti tutti d’altissimo livello qualitativo: le opere lignee ad intaglio del XII secolo e le sculture del Trecento e del Quattrocento fra cui alcune di Antonello Gagini, maioliche dipinte a lustro metallico dei secoli XIV e XVII, il busto di Gentildonna di Francesco Laurana (XV secolo) e le tavole dipinte di soffitti lignei. Il grande affresco del Trionfo della Morte (inizio secolo XV), proveniente da Palazzo Sclafani è esposto nella ex-cappella con una illuminazione proveniente dall'alto. Al primo piano l’opera di maggior rilievo è, senza dubbio, l’Annunziata di Antonello da Messina (XV secolo). A fianco ad essa sono collocate altre opere di Antonello: le tavole con le immagini di tre Dottori della Chiesa che costituivano le cuspidi di un polittico andato disperso. All’interno delle sale della Galleria Regionale si possono ammirare anche diverse opere realizzate da artisti stranieri, come il bellissimo trittico Malvargna di Jan Gossaert. e come la Deposizione di Jan Provost.



Linkografia :-




Bibliografia:-



* Meli F., Matteo Carnelivari e l’architettura del quattro e cinquecento in Palermo, Fratelli Palomi Editori, Roma 1958 * Morello P., Palazzo Abatellis. Il maragna del maestro Portulano da Matteo Carnilivari a Carlo Scarpa, Grafiche Vianello, Ponzano/Treviso 1989 * Polano S., Carlo Scarpa: Palazzo Abatellis, Electa, Milano, 1989 * Andrea Sciascia, Architettura contemporanea a Palermo, L'Epos, Palermo, 1998, pp. 35-42.

lunedì 28 gennaio 2008

Al di sotto del centro storico di Palermo.

28 Gennaio 2008.


Al di sotto del centro storico di Palermo sono in buona parte ancora sepolti i resti dell'antica Panormos che, insieme a Mozia e Solunto , fu una delle tre città nelle quali si ritirarono i Fenici "quando i greci giunsero in gran numero". La vita e le vicende stesse dell'originario insediamento, fondato nel VIII sec. a.C. su una lingua di terra tra i torrenti Kemonia e Papireto, sono legate all'esistenza del grande porto che le valse presso i Greci il nome di Panormos (tutto porto). La città nel 480 a.C. fece infatti da base per la flotta cartaginese durante lo scontro con i greci, e, nel 254 a.C. , capitolò soltanto dinanzi alla potentissima flotta di Roma.

Scavi recenti svelano l'antica struttura urbana con strade a pettine ai lati dell'asse viario NE-SO (attuale corso Vittorio Emanuele) e distinta in città vecchia, Paleapolis, a Sud-Ovest e città nuova, Neapolis, a Nord-Est, verso il mare originariamente più arretrato.La più consistente testimonianza è costituita dalle mura di fortificazione (V sec. a.C.), di tipo greco, a grandi blocchi disposti a filari regolari, senza uso di malta.

Gli unici resti significativi della città vera e propria continuano ad essere quelli all'angolo Sud-Est di piazza della Vittoria (villa Bonanno) dove sono state scoperte tre abitazioni romane, parzialmente in luce e recentemente restaurate. Le case , del tipo a peristilio, sono notevoli per la ricchezza dei pavimenti musivi in parte conservati in loco e in parte staccati e conservati nel Museo Archeologico. Dell'antica necropoli (cimitero), che si estendeva a Sud dell'area urbana, è accessibile, da Corso Calatafimi nr. 100, un lembo opportunamente allestito per la fruizione turistico-culturale.

Si segnalano incinerazioni in piena terra ed una all'interno di un sarcofago (VI sec. a.C.); inumazioni ed alcune tombe a camera di un tipo ricorrente a Palermo. A sud-ovest di Mondello, lungo la scogliera dell'Addaura, alle falde del monte Pellegrino, si trovano alcune grotte dove sono stati rinvenuti resti paleolitici (grotte dell'Addaura) e paleontologici ora al Museo Archeologico; più internamente si segnala la presenza di magnifiche formazioni stalagmitiche. I graffiti dell'Addaura risalgono a 14.000 anni fa e sono tra le più alte testimonianze di arte parietale del Paleolitico superiore . I graffiti sono composti da trenta figure, tra uomini e animali, disegnati con vivacità realistica. Le scene raffigurano momenti di vita quotidiana, scene di danza e di caccia.

GROTTE E GRAFFITI PALEOLITICI DELL'ADDAURA
Località Addaura, Via Gualtiero da Caltagirone - temporaneamente chiuso - tel. 0917071315.

RESTI ANTICA CORTINA MURARIA
Piazza Bellini, Piazza Celso

NECROPOLI PUNICA
Caserma Tukory, C.so Calatafimi, 100 - tel. 091590299 - feriali ore 09.00 - 19.00 - festivi dalle ore 09.00 alle 19.00 - accesso dalla cuba. Ingresso € 2,00 - ridotto € 1,00. Ingresso gratuito < anni 18 e  > 65 anni.

La Storia dell'Oratorio di Santa Cita di Palermo.

28 Gennaio 2008.


Palermo è una delle città che vanta il maggior numero di chiese e che non ha eguali per storia, architettura, affreschi e mosaici. Palermo conta numerosi monumenti risalenti al periodo normanno: nei pressi del Palazzo dei Normanni, che è diventato oggi la sede del Parlamento Siciliano, è collocata la chiesa di San Giovanni degli Eremiti che con le sue caratteristiche cupole rosse è diventata uno dei simboli della città; va ricordata poi la chiesa della Martorana, dalla ricchissima decorazione a mosaico, del più puro stile bizantino, situata in piazza Bellini, la chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi edificata oltre il fiume Oreto e il ponte dell'Ammiraglio del 1113. Costruita tra il 1130 e il 1170, la Chiesa della Magione, conosciuta anche come chiesa della Santissima Trinità, presenta una pianta a forma basilicale a tre navate sorrette da colonne, mentre internamente la costruzione si presenta molto squadrata e movimentata da una serie di archi ogivali tipici dell'architettura normanna, che girano tutt'intorno la chiesa. Dello stesso periodo è la Chiesa dello Spirito Santo (oggi all'interno del cimitero di Sant'Orsola), dove motivi ornamentali in stile normanno s'inseriscono in una sobria architettura articolata da archetti ogivali e portali d'ingresso.

La Storia dell'Oratorio di Santa Cita

Nel 1570, alcuni confrati dissidenti lasciarono la Compagnia del SS. Rosario in San Domenico e si stabilirono in alcuni locali del vicino convento domenicano, subito riadattati, fondando la Compagnia del SS. Rosario in Santa Cita. A distanza di un secolo la Compagnia fu costretta ad abbandonare quei locali ed in cambio ebbe gli spazi adiacenti alla chiesa dei SS. Quaranta Martiri, già da tempo sconsacrata, dove dal 1673 iniziarono la costruzione dell’attuale Oratorio del Rosario in Santa Cita (o Zita) completato nel 1686. L’aula oratoriale ancora oggi mantiene lo splendido aspetto barocco originario in cui trionfa lo stucco di Giacomo Serpotta realizzato tra il 1685 e il 1688 creando un complesso apparato iconografico volto ad esplicare la vera via per la salvezza tramite gli exempla dei Misteri (raffigurati tridimensionalmente) e delle statuarie Virtù. La controfacciata è il centro iconografico e semantico dell’oratorio con la raffigurazione della Battaglia di Lepanto intesa come apoteosi della Vergine del Rosario protettrice della flotta cristiana nello storico scontro con gli infedeli. Il pavimento marmoreo policromo, che si distende come un tappeto in un intreccio di stelle ad otto punte, simbolo mariano, fu realizzato intorno al 1699 e gli scanni lignei con intarsi floreali in madreperla tra il 1700 e il 1702. L’Oratorio, di recente, è stato oggetto di un intervento di restauro. L'oratorio è dotato di accessi per i disabili.

Il Palazzo dei Normanni e la sua storia.

28 Gennaio 2008.


Lo storico Giuseppe Di Stefano lo ritenne una costruzione sorta su una fortezza araba, ristruttura e ampliata da Ruggero II che fece costruire la Cappella Palatina e aggiungere dei corpi turriformi la cui altezza venne ridotta nel XVI s. Identifica le parti normanne con la Torre Pisana (con la stanza del Tesoro) e con la Torre della Gioaria (con la sala degli Armigeri al piano inferiore, e con la sala di re Ruggero e la restrostante sala dei Venti al piano superiore). Al secondo piano del palazzo (cosidetto "Piano parlamentare") si trovano la Sala d'Ercole, dove si riunisce il Parlamento siciliano, e la Sala di re Ruggero II, ricca di preziosi mosaici con motivi ornamentali, raffiguranti animali ed intrecci floreali, la sala dei venti, la sala Giallae la sala dei Viceré. Due scale laterali portano alla cripta. Questa si articola in un vano a pianta quadrata sottostante al presbiterio, scompartito mediante due colonne di pietra e con un'ampia abside centrale e due piccole laterali. Il palazzo reale è posto nel luogo più elevato dell'antica città tra le depressioni dei fiumi Kemonia e Papireto. Anche se alla costruzione vengono attribuite origini molto antiche risalenti alle dominazioni puniche, romane e bizantine, è all'epoca araba (IX secolo) che si deve attribuire l'edificazione del maestoso Qasr, "Palazzo" o "Castello", da cui ha preso il nome la via del Cassaro, l'odierno corso Vittorio Emanuele. Tuttavia, furono i Normanni a trasformare questo luogo in un centro polifunzionale, simbolo del potere della monarchia. Scrive Maria Teresa Montesanto in Palermo città d'arte (a cura di Cesare De Seta, Maria Antonietta Spadaro e Sergio Troisi): “Il palazzo era costituito da edifici turriformi collegati da portici e giardini che formavano un complesso unitario comprendente anche opifici tessili (il tiraz) e laboratori di oreficeria. Una via coperta lo collegava direttamente con la cattedrale. Nello spiazzo antistante vi era anche la cosiddetta Aula verde, di epoca anteriore, un ambiente aperto e riccamente decorato dove il re accoglieva i suoi ospiti. Nel 1132 venne costruita la Cappella Palatina che assunse una funzione baricentrica dei vari organismi in cui si articolava il palazzo. Con gli Svevi di Re Federico II, che vi risiede solo nell'età giovanile, il palazzo rimane sede dell'attività amministrativa, della cancelleria e della scuola poetica siciliana. Il ruolo periferico della città inizia con gli Angioini e gli Aragonesi che privilegiarono altre sedi. La rinascita del palazzo si ha con i viceré spagnoli che, nella seconda metà del XVI secolo, scelsero di risiedervi adeguandolo alle nuove esigenze difensive e di rappresentanza, ristrutturandolo notevolemte, creando bastioni e modificando il palazzo. Durante i Borboni furono create le sale di rappresentanza (Sala Rossa, sala Gialla e Sala Verde) e fu ristrutturate Sala d'Ercole, con gli affreeschi raffiguranti le fatiche dell'eroe mitologico. Un profondo restauro ha subito negli anni '60, sotto la cura di Rosario La Duca. Dal 1947 il Palazzo dei Normanni è sede dell'Assemblea Regionale Siciliana.

La Cappella Palatina

La Cappella Palatina, che sorge nel Palazzo Reale, è a schema basilicale a tre navate, divise da archi ad ogive con la particolarità della cupola eretta sul santuario triabsidato. Le navate sono suddivise da colonne di spoglio in granito e marmo cipollino con capitelli compositi. La cupola visibile era dall'esterno insieme con il campanile, mentre ora la costruzione è inglobata dal Palazzo Reale. Cupola, transetto ed absidi sono interamente rivestiti nella parte superiore da splendidi mosaici bizantini, che sono tra i più importanti della Sicilia. Raffigurano Cristo Pantocratore benedicente, gli evangelisti e scene bibliche varie. I più antichi sono quelli della cupola, che risalgono al 1143. Il soffitto ligneo della navata mediana e la travatura delle altre sono intagliati e dipinti in stile arabo. Nelle stelle lignee in ogni spicchio ci sono animali, danzatori e scene di vita cortigiana islamica. La Cappella Palatina fu consacrata nel 1140 e dedicata ai santi Pietro e Paolo da Ruggero II di Sicilia (si dice palatina una chiesa o una cappella riservata ad un regnante e alla sua famiglia. Il termine latino palatinus deriva infatti da palatium, "palazzo imperiale"; nel medioevo l'aggettivo ha preso il significato di “appartenente al palazzo imperiale”). Lo splendido edificio palermitano è interamente rivestito di un tappeto musivo, che è più libero nella concezione dello schema iconografico rispetto ai mosaici della chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio, detta anche la Martorana. Ecco come Augusto Schneegans (in La Sicilia nella natura, nella storia e nella vita, 1890): “Tutto è diverso nel castello reale, dove il custode conduce i visitatori con una specie di timore religioso fino alla porta della Cappella Palatina. Quivi giunto, apre con solennità la cappella avvolta in una oscurità mistica, e poi si ritira silenzioso, come se nessun profano dovesse mettere piede sul sacro suolo. Ed infatti questa cappella meravigliosa pare che sia una cosa sacra. Vi entriamo come in un regno di favole, trasferito qui dall'Oriente: l'oscurità crepuscolare di quei corridoi con alte colonne è inondata dal dolce e carezzevole splendore del sole; le mura scintillano come di oro e splende dalle cupole una luce dorata. I santi e il grande Cristo bizantino guardano meravigliati il forestiero che ardisce mettere il piede in questa soglia consacrata. Con un sordo rumore la porta si chiude dietro di noi; una tranquillità ed un silenzio divini ci circondano; rimaniamo sbalorditi e guardiamo attorno come ammaliati. All'altare maggiore celebra un sacerdote coi capelli argentei e con un rosso e ondeggiante indumento, negli alti stalli seggono altre figure venerabili; grandi volumi di pergamena stanno aperti sui leggii di quercia le cui pagine giallastre sono via via voltate dai cantori. Un raggio di sole colorito, attraverso le dipinte vetrate del soffitto, scherza sopra gli abiti sacerdotali gallonati d'oro e scintilla sui vecchi guarnimenti d'argento dei libri corali. Lento e con modulazione uniforme, risuona il canto dei preti per le gallerie; dalla profondità del coro rispondono le voci argentine dei chierici: si sente il suono fine e chiaro del campanellino tra il ronzio ed il canto: a quel suono le teste canute s'inchinano e le ginocchia si piegano. Sebbene il forestiero non sia entrato come un credente, in questa cappella, pure in mezzo a quell'atmosfera piena di misticismo, china anch'egli il capo e piega le ginocchia come un credente. Solamente, dopo che quel primo sentimento di stupore si è dileguato, guarda attorno e rimane come estatico; perché in nessun altro luogo ha mai veduta cosa più bella. In quel recinto angusto, ma alto, arioso e illuminato dal sole, egli si trova in mezzo all'opera più perfetta che l'arte cristiana abbia mai prodotta. Svelte colonne sostengono sugli ampii capitelli gli archi acuti normanni, alquanto più larghi dei saraceni; più grossi della colonna e del capitello s'innalzano i pilastri e piegandosi leggermente con lento slancio ed elegante, s'uniscono da ambedue le parti nella pietra di chiusura, terminando in punta, ma rotondeggiata artisticamente. Poche colonne sostengono l'alta volta della piccola cappella; perché questa casa di Dio è veramente una miniatura, un prezioso cofanetto di scintillanti gioielli! Dal pavimento fino al soffitto; dalle colonne, dai muri, dagli altari, dai confessionali fin sotto alla gradinata che conduce nel coro, fin negli angoli più remoti dei corridoi laterali avvolti nell'oscurità, tutto ride e risplende di mosaici. I fatti della storia sacra vi sono dipinti in figure vive; sulle colonne stanno gli apostoli e i santi nella loro attitudine ieratica; nelle pareti è rappresentata la storia del vecchio e del nuovo Testamento; cori d'angioli volano intorno all'eccelsa cupola colle finestre traforate, dalla quale scende la chiara e dolce luce del sole, meravigliosamente smorzata e come disciolta in un morbido ondeggiamento. E su in alto, occupando tutta la volta della cupola, sta la colossale la colossale mezza figura del Salvatore in una quiete solenne, colla destra alzata in atto di benedire, col sacro volume nella sinistra, con la chioma lunga e ondulata, con la barba bionda: ha tre grandi raggi attorno al capo e i suoi grandi occhi guardano così intensamente, da sembrare che ne esca una vita celeste che empie ed avviva di una luce misteriosa la semioscurità di quel santuario.
La Cappella è stata definita un vero miracolo d'armonia spaziale e decorativa, quest'ultima frutto di una felice fusione tra impianto centrale bizantino (presbiterio) e schema basilicale latino (navata). La decorazione a mosaico fu ispirata nei temi da Ruggero II e, in un magico connubio di stili e capacità tecniche, in essa convivono esperienze culturali differenti comprese quelle in purissimo stile islamico, quali il soffitto ligneo a lacunari – elementi realizzati in differenti materiali che ornano i soffitti – e muqarnas, o la serie di vivacissimi dipinti (del quarto decennio del XII secolo), raffiguranti i piaceri della vita di corte e gli svaghi del principe (giocatori di scacchi, danzatrici, dromedari e bevitori) che costituiscono il più vasto ciclo pittorico islamico pervenutoci. È un universo profano e gioioso che convive, artisticamente parlando, con le immagini sacre e dottrinali del grandioso complesso musivo. Ugo Falcando, storiografo della corte normanna (1190 circa), dedica alla Cappella Palatina questa nota: “A coloro che entrano nel palazzo da quella parte che guarda si presenta per prima la Regia Cappella col pavimento rivestito di un magnifico lavoro, con le pareti decorate in basso con lastre di marmo prezioso e in alto invece con tessere musive, parte dorate e parte di vari colori, che contengono dipinta la storia del vecchio e del nuovo testamento. Adornan poi l'altissimo tetto di legno la particolare eleganza dell'intaglio, la meravigliosa varietà della pittura e lo splendore dell'oro che manda raggi dappertutto”. Dopo il terremoto del settembre 2004, è sottoposta a restauri.

La stanza di re Ruggero

Luci d'oriente dentro il Palazzo Reale. “Sempre nel Palazzo Reale ci siamo trattenuti nell'incantevole appartamento di re Ruggero. I mosaici di scuola bizantina, raffiguranti alberi e animali, hanno una loro magnifica convenzionalità fiabesca e nella composizione perfetta sembrano di stile persiano o meglio ancora selgiuchida, piuttosto che araba”. Così si esprime Bernard Berenson, il grande storico dell'arte che visitò Palermo nella primavera nel 1953. È unico esempio in Sicilia di mosaici non raffiguranti soggetti sacri. La stanza è abbellita da mosaici del XII secolo con l'esclusione della volta d'epoca di Federico II con la rappresentazione dell'aquila sveva. Il grande e luminoso "tappeto" di tessere luccicanti ricopre la zona superiore delle pareti e presenta una scena di caccia, una lotta fra centauri ed animali affrontati ai lati di alberi e palmizi – leopardi, pavoni, cervi, cigni – che si stagliano sul fondo dorato. Nel loro complesso le scene non hanno carattere narrativo, cioè non raccontano una vicenda, ma dispongono invece le figure e le piante secondo uno schema esclusivamente decorativo. La tecnica del mosaico è molto antica ed ebbe origine presso le civiltà mesopotamiche raggiungendo un grande sviluppo nel periodo ellenistico-romano in cui venne utilizzata per pavimentazioni e rivestimenti murali. Nel periodo bizantino il mosaico arrivò ai massimi risultati espressivi e si diffuse da Bisanzio a Roma, a Venezia e in Sicilia. Elemento fondamentale di questa tecnica sono le tessere che vengono inserite una ad una in uno strato d'intonaco fine e fresco, seguendo un disegno prestabilito. Le tessere vitree composte di silicati, colorate con sostanze minerali, riflettono la luce moltiplicando le vibrazioni del colore. Le tessere d'oro sono realizzate inserendo una lamina di questo metallo fra due strati di vetro trasparente. Strettamente legati al gusto orientale islamico sono i mosaici profani con scene venatorie nella sala di Re Ruggero (la Gioaria, dall'arabo al-jawhariyya, che significa “l'ingioiellata”) situata anch'essa nel palazzo dei Normanni. Ed è verosimilmente la stessa fonte iconografica ad aver ispirato il simmetrico confronto tra due fiere su una delle pareti della stanza, come nel manto regale appartenuto a Ruggero II ed oggi conservato nel Tesoro Imperiale di Vienna (un prezioso tessuto in seta ricamata databile al 1133). Una scena concepita in modo analogo si trova in un mosaico palestinese dell'VIII secolo, proveniente dal palazzo di Khirbet al-Mafjar e adesso al museo archeologico di Gerusalemme, ma anche in un frammento musivo del IV secolo proveniente questa volta da Cartagine e attualmente nel Museo del Bardo a Tunisi.

venerdì 25 gennaio 2008

Da Corso Calatafimi a Monreale.

25 Gennaio 2008.

Antiche cronache arabe narrano che tutto il nord della città era un'oasi di sogno dove si viveva alla raffinata maniera orientale. Testimonianza più fulgida dell'epoca è il Castello della Zisa, (da Aziz, in arabo:splendida) edificata nel 1154, sotto il regno di Guglielmo I, su modello arabo. E' una costruzione rettangolare ornata di arcate e di feritoie. L'interno, che evoca i fasti decorativi dei Palazzi Orientali, ha una sala a volta con stalattiti, preceduta da un atrio. Lungo le pareti corre un fregio in mosaico che rappresenta cacciatori e pavoni. Nelle cripte del Convento dei padri Cappuccini, del XVII secolo, si estende un cimitero noto come le Catacombe dei Cappuccini, che custodisce circa 8.000 salme, imbalsamate fino al 1881. I corpi, appartenenti all'alta borghesia palermitana e al clero, sono divisi per categorie sociali o professionali. In corso Calatafimi, all'ingresso della Caserma Tukory, si scopre un edificio rettangolare chiamato la Cuba, costruito nel 1180 da artisti arabi. Doveva il suo nome alla sua alta cupola ora crollata. La chiesa di S. Spirito, o dei Vespri, è l'armonioso risultato di una contaminazione fra gli stili arabo normanno e gotico. Essa prende il nome per ciò che vi successe il giorno di Pasqua nel 1282, mentre si cantava il Vespro, quando un soldato francese recò offesa all'onore di un giovane siciliana e la reazione dei presenti diede vita alla celeberrima rivolta contro il dominio angioino, conosciuta con il nome di rivolta dei Vespri Siciliani. Ad otto chilometri dalla città, Monreale è il principale centro turistico dei dintorni di Palermo, noto soprattutto per la sua Cattedrale e lo splendido Chiostro. L'interno della Cattedrale presenta la più vasta superficie coperta da mosaici nel mondo, dopo quella di Santa Sofia di Instanbul. Eseguiti tra il XII e il XIII secolo culminano nel Cristo Pantocratore, che occupa tutta la conca dell'abside centrale e rappresenta il punto di convergenza del poema teologico. Il Chiostro benedettino annesso è un quadrato di 47 metri di lato, porticato con una teoria continua di arcate a sesto acuto sostenute da 228 colonnine abbinate e decorate da intarsi moreschi tutti differenti. Diversi l'uno dall'altro sono anche i capitelli, ornati mirabilmente con motivi antropomorfici, fitomorfici e con altri elementi di fantasia tradizionali dell'immaginario medievale. Il corso si trova tra porta Nuova e la strada provinciale. Fa parte del quartiere Palazzo Reale - Monte di Pietà, Mezzomonreale-Villatasca. Il largo si trova nel corso Calatafimi. Chiamato originariamente lo "stradone" di Mezzo Monreale", prese il nome di corso Calatafimi dopo l'annessione della Sicilia al Regno d'Italia, in onore di Garibaldi, vincitore della battaglia di Calatafimi,che, dopo aver sconfitto le truppe borboniche a Pioppo, venne a Palermo proprio attraverso questa strada. Sulla data di costruzione, il prof. La Duca, nella Città perduta, espone i dubbi tuttora esistenti: infatti Gaspare Palermo, nella sua Guida, annota che ne fu autore il vicerè Marcantonio Colonna, nel 1580, mentre il Villabianca, in Palermo d'oggigiorno, cita come anno di inizio il 1583 e come anno di completamento il 1595. La Duca ritiene che fu Marcantonio Colonna ad avere l'idea di costruire questa strada contemporaneamente al prolungamento del Cassaro sino al mare , e che essa venne realizzata in seguito. Fatto sta che, alla fine del XVI secolo, esisteva già una "via diritta che conduceva dalle falde del Monte Caputo sino al mare, attraversando la città. La strada , larga e ombreggiata dagli alberi fatti piantare dal pretore Aleramo del Carretto per proteggere dal sole i monrealesi che andavano e venivano da Palermo, giungeva sino alla scala di Monreale. Doveva essere bella e grande se i palermitani la chiamavano "lo stradone" e vi si recavano a passeggiare. E se la memoria popolare - che è memoria storica - ne ha conservato per secoli il ricordo, come testimonia un "cantu di carretteri", certamente tramandato da padre in figlio, che dice: "Che bedda chista via di Monriali. / Ci su li chiuppi filari fileri / e 'intra lu mezzu li quattru funtani/ pi l'arrifriscu di li passeggeri. "Li quattru funtani" a cui la nenia popolare si riferisce - e che erano in realtà cinque - furono costruite nel 1630, quando il vicerè Francesco Fernandez, duca di Albuquerque, completò la costruzione della strada e, per il ristoro dei passeggeri, la fece ornare di artistiche fontane di pietra di Billiemi su disegno dell'architetto Mariano Smiriglio. Di esse una sola è sopravvissuta: la seconda, detta "fontana dei Dragoni", che si trova accanto all'Educandato "Maria Adelaide", di fronte all'Albergo delle Povere (e perciò fu detta anche "dell'Albergo"). E' posta al centro di una esedra, chiusa da una provvidenza cancellata in ferro battuto , aggiunta in epoca posteriore. Al di là di questa, circondata da un sedile semicircolare in pietra,l'imponente vasca di forma ovale, adorna ai due lati di due massicci dragoni dalle ali spiegate, che sembrano volersi affrontare. Delle altre si ha solo qualche notizia dalla descrizioni degli storici e da qualche antico disegno. La prima era situata nel piano di Santa Teresa (oggi piazza Indipendenza): aveva nel mezzo una colonna, sostenuta da quattro leoni dalla cui bocca fuoriusciva l'acqua, e terminava con una torre, dalla cima della quale uscivano quattro getti d'acqua. La terza sorgeva accanto al convento della Vittoria (oggi Caserma "Tukory"). Circondata da un anfiteatro, ornata di marmi bianchi e pietre grigie, era strutturata a forma di scalinata,lungo la quale scendeva l'acqua che andava a raccogliersi dentro una conca. La quarta era all'inizio della strada dei Cappuccini (oggi via Pindemonte) contornata da sedili, circondata da pioppi, cipressi e altri alberi ombrosi, offriva frescura e riposo a quanti vi si spingevano nelle loro passeggiate. La quinta, detta "fonte della Scaffa", era quasi al termine della strada.

LA NECROPOLI

Il sottosuolo di Corso Calatafimi, nella parte che va da piazza Indipendenza all'incrocio con via Pindemonte, è occupato dal più vasto e completo cimitero ipogeo della città, databile tra la seconda metà del VII secolo a।C. e il III secolo d.C. Le tombe sono per lo più a camera, con pianta rettangolare o trapezoidale, cui si accedeva per mezzo di una scalinata; il vano era chiuso da un lastrone molto grande, dinanzi al quale, talvolta era posto un cippo a forma di piramide. Nel vano erano contenuti uno o due sarcofaghi di calcare, coperti per lo più da lastre, talvolta da tegole di terracotta; a terra, il corredo funerario: anfore, ciotole, lucerne, vasetti, qualche gioiello.

Castello della Zisa

Piazza Guglielmo il Buono - tel. 0916520269. Feriali ore 9.00-19.30, festivi ore 9.00 - 19.00 fino al 29.07.2005. Ingresso intero € 3,00 - Ingresso ridotto € 1,50. Ingresso gratuito per i 65enni.

Catacombe Cappuccini

Via Cappuccini,1 - tel. 091212117. Tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 12.00 e dalle 15.00 alle ore 17.30. Annuale - ingresso € 1,50.

(La) Cuba

C.so Calatafimi,100 - tel. 091590299. Da lunedì a Sabato dalle ore 9.00 alle ore 19.00. Festivi ore 9.00 - 19.00. Ingresso intero € 2,00 - ingresso ridotto € 1.

Chiesa dei Vespri

Via Santo Spirito - Cimitero S. Orsola . Tel. 091422691. Tutti i giorni dalle ore 8.00 alle ore 14.00 Annuale.

Duomo di Monreale

Piazza Duomo - tel. 0916404413. Ingresso al Duomo gratuita, tutti i giorni dalle ore 08.00 alle ore 18.00. Tesoro e terrazze dalle ore 08.00 alle ore 12.30 e dalle ore 15.30 alle ore 18.00. Tesoro € 2,07, terrazze € 1,55.

Chiostro Monreale di Santa Maria la Nuova

Piazza Guglielmo il Buono - tel. 0916404403. Da lunedì a sabato dalle ore 09.00 alle ore 19.00. Festivi dalle ore 9.00 alle ore 19.00 fino al 29.07.2005. Ingresso Chiostro : intero € 6,00 - ridotto € 3,00. Gratuito per i 65enni.

Linkografia:-

L’opera dei Pupi è la forma più visitata del Teatro di Figura.

25 Gennaio 2008.

Teatro di marionette popolari siciliane che rappresenta le gesta eroiche dei paladini di Francia e in genere dei personaggi del mondo cavalleresco comuni al repertorio dei cantastorie. Le marionette sono alte sino a un metro e più, indossano vivacissimi costumi e rutilanti armature e vengono mosse non solo con i fili, ma, nei duelli a colpi di spada, con un'asta di ferro. I p., forse di origine spagnola, arrivarono nell'isola da Napoli verso la metà del sec. XIX, raggiungendo enorme popolarità prima a Catania e a Palermo, poi anche nelle città e nei villaggi della provincia. I copioni erano tratti da pubblicazioni popolaresche e fornivano al “parlatore” soltanto un canovaccio, da riempire con battute e dialoghi in versi improvvisati. Le rappresentazioni avvenivano a cicli e potevano durare anche cinque o sei mesi. Il ciclo carolingio con Orlando, Rinaldo, Carlo Magno e Ruggiero era il tema principale, ma i p. presentavano anche altre storie, quelle p. es. di Garibaldi o di Petrosino e, per Natale, vicende imperniate sul Bambino Gesù. Le più famose dinastie di pupari furono quelle dei Grasso a Catania e dei Greco a Palermo. Il genere sopravvive in appositi teatrini sia nei centri urbani sia in periferia.

L’opera dei Pupi è la forma più visitata del Teatro di Figura.


Risulta estremamente difficile individuare con certezza in quale periodo nascono le marionette armate con repertorio cavalleresco ed il luogo da cui inizia questa tradizione. Si ha notizia che pupi con armature rudimentali esistevano già nell’800 in alcune città italiane, come Roma, Napoli, Genova etc, ma è in Sicilia dove questi si evolvono per divenire il pupo che oggi conosciamo. La diffusione in un’area prettamente meridionale induce alcuni a sostenere la tesi di un’ origine spagnola del teatro dei pupi, essendo il mezzogiorno fortemente influenzato non solo politicamente, ma anche culturalmente dalla Spagna. Purtroppo non si sa però né per quale via, né quando, queste marionette siano arrivate in Italia. Sul finire del 700 comunque, a Napoli come a Palermo, troviamo marionette di vario genere che non erano però ancora veri “pupi” essendo essi molto rudimentali, costruiti per lo più di cartone e stagnola. Di vero e proprio pupo quindi, si inizia a parlare intorno alla metà dell'800 dove la bravura e l'intuizione degli artigiani siciliani fanno compiere un salto di qualità a quel rozzo pezzo di legno e stoffa. Si cominciò a ricoprire il pupo con armature di metallo lavorato arricchite da cesellature, sbalzi e arabeschi e gli accorgimenti tecnici si fecero sempre più ricercati: il filo che comandava la mano destra del pupo venne sostituito da un'asta di ferro, cosi che l'oprante poteva far compiere, al pupo, azioni più precise come estrarre e riporre la spada nel fodero, abbracciare una dama, battersi il petto o la fronte con il pugno, abbassare la visiera dell'elmo etc. e contemporaneamente vennero cuciti vestiti, mantelli e gonnellini con stoffe sempre più belle e preziose. - Questo processo di sviluppo durerà fino ai giorni nostri, dando vita a pupi sempre più belli e raffinati e sviluppando parallelamente anche tutti quei trucchi e accorgimenti scenici atti ad una rappresentazione d’alto livello artistico. Solo agli inizi del 19°secolo quando l’interesse per il popolaresco e per le sue forme di vita spinse i dotti e la nuova classe borghese ad interessarsi di quello che si credeva fosse il vivaio più genuino delle patrie memorie, solo allora l’opra non fu più soltanto un semplice passatempo, ma una cosa molto più seria, quando cioè (scrive Ettore Li Gotti) "l’anima dei pupi divenne l’espressione dei sentimenti e delle aspirazioni di giustizia di una classe sociale". Durante le rappresentazioni, gli opranti riuscirono ad infondere nell’animo dei pupi quell’espressione di sentimenti, giustizia e libertà di cui il popolo, e non solo il basso ceto ma ancor più la borghesia e il ceto dotto, si fece portatore nella Sicilia del primo ‘800. L’Opera dei Pupi, quindi, ebbe anche valenza propagandistica e non è un caso se il pubblico dell’opra e lo stesso che combatté contro i Borboni per liberare la Sicilia oppressa dagli stranieri. Il popolo, dunque, trovò i suoi eroi nell’Opera dei Pupi e nei racconti cavallereschi, questo spiega l’attenzione e la costanza con cui il pubblico seguiva, sera dopo sera, storie ed avventure che si protraevano anche per diversi mesi. La partecipazione del pubblico, alla rappresentazione, non era quindi passiva ma si spingeva fino al coinvolgimento emotivo: applaudendo i paladini e fischiando i mori e a volte lanciando oggetti contro il palcoscenico o addirittura, in qualche caso, uno spettatore “esaltato” sparava, vere e proprie revolverate, contro il pupo “traditore”. E’ da ritenersi infondata l’ipotesi che il teatro dei pupi siciliani sia nato dall’importazione di alcune marionette napoletane in Sicilia per opera di Giovanni Grasso, perché già prima del 1860, anno in cui il Grasso ritornò nella nostra isola, l’esistenza dell’opra è documentata sia a Palermo che a Catania. Tuttavia è da tenere presente che esiste una reciproca influenza tra l’esperienza napoletana e quella siciliana, ma ciò non significa che esista un solo nucleo originario. Un ruolo determinante è stato quello del cuntastorie, che era una sorta di puparo mancato, cui solo le limitate possibilità finanziarie impedivano di allestire un teatro dei pupi, affidandosi, così, all’arte della parola, imparando tutte le regole della narrazione; divenendo negli anni un cuntista. Si trattava quasi sempre di povera gente, che viveva alla giornata, e che non poteva permettersi di acquistare tutti gli attrezzi del mestiere per divenire puparo. Esso offriva, nelle sue rappresentazioni un comodo repertorio già in parte sceneggiato e dialogato. Storicamente il cuntastorie era un narratore che non utilizzava alcuno strumento musicale (usato molto tempo dopo dai cantastorie), ma usava modulare la voce con una tecnica tutta particolare, con regole precise di tempo, ritmo ed esposizione orale che si tramandava di generazione in generazione. Non importava se era analfabeta o ignorante, la sua capacità era quella di apprendere e reinventare la vita usando forme epiche collaterali derivate da motivi storici quale lo scontro tra cristiani e pagani, dal ricordo cocente di lunghe lotte contro i pirati turchi, da un forte sentimento religioso che contrappone il trionfo del bene alla mortificazione del male. Il teatro dei pupi siciliani, nella seconda metà dell’ottocento, volendo mantenere la valenza epica, si è specializzato in questa direzione, ereditando tutto il patrimonio dei cuntastorie. Nella prima metà dell’ 800 i marionettisti girovaghi, rafforzano il carattere professionale del loro lavoro. Si organizzano a livello impresariale perfezionando le tecniche espressive allo scopo di richiamare un pubblico sempre più vasto. Da allora, la disponibilità degli artigiani a realizzare un pupo più elaborato e il confluire nell’opra la tradizione epico -cavalleresca, grazie all'apporto di Giusto Lodico che realizzò un' opera in quattro volumi della storia dei paladini di Francia, (che ancora oggi rappresenta la base trainante dell'opra dei pupi), costituiscono i due poli di un rilancio in maniera più articolata del fenomeno.

Da visitare:
» Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè di Palermo
» Compagnia La Marionettistica F.lli Napoli di Catania / Antica Bottega del Puparo: via Reitano, 55
»Teatro-Museo dei Pupi Siciliani: via Dusmet, presso Vecchia Dogana (adiacenze ingresso porto di Catania)
» Museo Civico Vagliasindi di Randazzo (Ct)
» Museo Aretuseo dei Pupi di Siracusa
» Piccolo Teatro dei Pupi e delle Figure di Siracusa
» La Bottega del Puparo, via della Giudecca, 19 - Siracusa (si dedica anche al restauro ed alla realizzazione di pupi, marionette, burattini, pupazzi, tamburelli, portachiavi e maschere della tradizione siciliana - telefono 0931 465540)

Monreale.

25 Gennaio 2008.


Se Palermo è, nel panorama artistico della provincia (e dell'intera Sicilia), il centro urbano eminente, altri luoghi, altri centri abitati nello stesso territorio provinciale propongono - nella diversità delle testimonianze custodite -depositi d'arte d'alto spessore, che ne fanno preziosi archivi di immagini estetiche. Per esse il vivace mondo espressivo dei centri minori offre la rappresentazione della comune civiltà artistica, squisito apparato di bellezze che partecipano alla composizione dell'articolato mosaico dell'Arte e della Storia. Movendo all'osservazione di un tale composito retablo di forme del passato, il visitatore sperimenterà allora nuove immagini del bello, raccoglierà altre interessanti espressioni figurative che ne soddisferanno umanisticamente l'impegno culturale. Scontato sarà iniziare la scorribanda alla conoscenza artistica della provincia palermitana da Monreale, la cittadina di origine normanna che , ormai conurbata con Palermo, dalle pendici del monte Caputo pittorescamente domina la Conca d'Oro e la stessa capitale. Qui capolavoro esclusivo, che vale da solo un viaggio in Sicilia, è il duomo normanno, struttura di compatto impianto romanico, fondato (1174-1176) dal re Guglielmo il Buono. La maestosa mole dell'edificio severamente prospetta nella marcata imponenza delle due torri angolari che serrano il settecentesco portico a tre arcate, al cui interno la splendida porta bronzea di Bonanno Pisano (1186) immette nel tempio; sul fianco destro è un'altra porta preziosamente scolpita da Barisano di Trani (1179); all'esterno, le absidi propongono una festosa decorazione policroma ad archi acuti intrecciati a tarsie di lava e calcare.Il miracolo è all'interno. Rifulge nella spaziosa aula basilicale l'aurea gloria dell'intenso addobbo musivo, che per una superficie di ben 6340 mq. riveste le pareti, svolgendo in una luminosa narrazione ricca di vividi cromatismi i cicli dell'Antico Testamento nella navata centrale, della vita di Cristo nelle navi minori, ed episodi seguiti all'Incarnazione del Verbo nelle pareti delle absidi, dominate nell'alto del cappellone dalla possente figura del Cristo Pantocratore. Sulla destra dell'edificio, lo squisito chiostro dell'antica abbazia benedettina, opera dalle fascinose evocazioni orientali, si offre con la ritmata sequenza delle sue cento arcate gotiche sorrette da 228 leggiadre colonnine binate, tutte di diverso ornato. Il chiostro fu costruito da artigiani borgognoni che erano di passaggio per andare in Terrasanta. Centoquattordici coppie di colonnine binate, con capitelli diversi l'uno dall'altro, raffiguranti storie sacre e profane o allegoriche per indurre alla meditazione. " O dives, dives non multo tempore vives". Sulla torre sinistra del Duomo di Monreale, proprio sopra il quadrante dell'orologio è scritto: "Tuam nescis". Proprio così: "Non conosci la tua ora". Questo senso dell'uomo, perituro figlio dello spazio-tempo, domina quella cultura che aveva elevattisimo il senso del trascendente. L'interno del Duomo è un fantastico miracolo di oreficeria. Non v'è centimetro di muro che non sia rivestito di mosaici su fondo d'oro. La visione del folgorante sole di Sicilia, che non si limita ad entrare dalle alte e lanceolate finestre delle pareti e dalle absidi che guardano ad Oriente, ma ritrova il suo mirabile riflesso dorato nel tempio, dove i mosaici che raccontano la storia del cristianesimo, dall'antico Testamento ai fatti principali della vita di Cristo, e quelli che attraverso la rappresentazione di angeli, profeti e patriarchi e santi magnificano i trionfi della Chiesa, sono un inno al trascendente. Dentro il tempio le tombe di Guglielmo I in porfido, e quella di Guglielmo II in marmo bianco, scolpito e dorato solo nell'ala sinistra. Ma l'occhio si abbaglia alla vista della gigantesca raffigurazione del Cristo Onnipotente, con la mano destra in atto di benedire e con un libro nella mano sinistra dove è scritto, in greco e in latino: " Io sono la luce del mondo: chi segue me non va per le tenebre". Questa grande figura che sembra abbracciare tutto il tempio, visbile da ogni parte, sembrare ovunque si sia, con dolci occhi a mandorla. Sotto, nella parte centrale dell'abside maggiore spicca la figura di Maria, seduta in un seggio, che tiene in ginocchio il bambino, in un abito azzurro e ai lati del suo capo una scritta in greco: " Tutta Immacolata ". Fra le cappelle va ricordata quella che conservò il corpo di San Luigi, prima che fosse portato in Francia, e quella di San Benedetto, di un fastoso Barocco. Le porte in bronzo sono di Barisano da Trani e di Bonanno da Pisa, il tetto del Duomo in forma di carena di nave è in legno scolpito e fregiato in oro. Il Duomo è architettonicamente tracciato a croce latina, proprio per una scelta culturale occidentale dell'ultimo dei re normanni, Guglielmo II detto il "Buono". Da visitare, oltre ai sarcofagi in porfido di Guglielmo I e II , la Cappella cinquecentesca di San Benedetto e la secentesca Cappella del Crocifisso attraverso la quale si accede al ricco tesoro del Duomo. Tel. 0916404413 - orario visite: 8.00-18.00 tutti i giorni. Da vedere anche i resti del Palazzo reale normanno, il Seminario dei Chierici, la chiesa del Monte decorata da stucchi del Serpotta, la chiesa del Collegio di Maria, e gli edifici civili sei-settecenteschi che arricchiscono il tessuto urbano.Lasciando Monreale, in direzione Pioppo (frazione del Comune di Monreale), si raggiunge l'area boschiva di Casaboli e si può visitare un'area faunistica che ospita cinghiali, daini e capre tibetane. Oltre ai monumenti più celebri è possibile visitare: la chiesa della Collegiata, il Belvedere, la Galleria d'arte moderna G. Sciortino - tel. 0916405443 da lun. a sab. 9.00 - 13.00/15.00-19.00 - dom. 9.00 - 13.00; il Santuario di Tagliavia. Da non perdere, a novembre: la "Settimana di musica Sacra", tra le più importanti rassegne dedicate a questo genere e a maggio la festa del Santissimo Crocifisso.Da vedere: la frazione di San Martino delle Scale che prende il nome dall'antico e prodigioso complesso Abbaziale Benedettino, fondato da Papa San Gregorio Magno nel VI sec., distrutto nell'830 dagli arabi venne riedificato nel 1347 dal benedettino Angelo Senisio e dedicato a San Martino, vescovo di Tours e rimaneggiato in età neoclassica da Venanzio Marvuglia. La chiesa ospita numerose opere d'arte tra le quali le tele di Pietro Novelli, Filippo Paladini, Zoppo di Gangi, Paolo de Matteis e marmi raffinati di altre età. Monumentale e spettacolare è l'immenso Coro ligneo ad intarsi opera cinquecentesca napoletana. Da vedere: la Cappella delle Reliquie custodite nell'abbazia, la monumentale Fontana dell'Oreto, ricchissima e sorprendente per preziosità e varietà, la dotazione di parametri sacri e anche un meraviglioso organo cinquecentesco restaurato e restituito al suo originario splendore.

giovedì 24 gennaio 2008

Cagliostro Alessandro, conte.

24 Gennaio 2008.


Nome con cui è noto l'avventuriero e mago italiano Giuseppe Balsamo (Palermo 1743-San Leo, Pesaro, 1795). Di famiglia povera, entrò come novizio nel convento della Misericordia di Caltagirone che presto abbandonò, dedicandosi allo studio della medicina come aiutante farmacista e dell'alchimia. A causa della sua vita scapestrata, fu costretto a lasciare Palermo e a rifugiarsi a Roma dove sposò (1768) Lorenza Feliciani, che lo seguì in tutte le sue peregrinazioni attraverso l'Europa. A Londra (1776) si affiliò alla massoneria fondando egli stesso una loggia di “rito egiziano” della quale si nominò capo. Acquistò ben presto fama di guaritore e mago, anche per merito dei suoi indubbi poteri ipnotici, delle sue conoscenze nel campo dell'occultismo e di una non comune forza di suggestione. A Parigi ebbe grande successo nell'alta società conquistando l'amicizia del cardinale di Rohan; fu poi coinvolto nell'affare della collana della regina Maria Antonietta e a causa di ciò bandito dalla Francia (1786). Riprese la vita errante finché, nel 1789, a Roma venne processato dal tribunale dell'Inquisizione (pare in seguito alla delazione della moglie) e condannato a morte per aver tentato di fondare nella città una loggia massonica; ebbe la pena commutata in carcere a vita e morì (secondo alcuni autori, assassinato) nella fortezza di S. Leo, dopo alcuni anni di prigionia durissima che lo portarono alla follia. § Per antonomasia, imbroglione, avventuriero: quella faccia da c. ispira poca fiducia.BibliografiaF. King, Cagliostro, Londra, 1910; M. Haven, Le Maître inconnu Cagliostro, Parigi, 1938; P. Carpi, Cagliostro, Padova, 1987.

Palermo,capitale dell'euromediterraneo attraverso la storia delle sue principali arterie stradali

24 Gennaio 2008.


Via Libertà.



Si estende dalla piazza Castelnuovo e Ruggero Settimo alla piazza Vittorio Veneto, nel quartiere Politeama - Libertà.E' ritenuta, giustamente, la più bella arteria stradale del capoluogo della Sicilia. Trattasi di un bel viale alberato ricco di vetrine e boutique; ampio e grandioso, elegantissimo coi suoi platani verdi e folti (per usare la stessa espressione di Adrien de Saint che scrisse nell'Ottocento la magnificienza del viale). Al tempo in cui visse il de Saint la via era ricca di ville in stile liberty, lo stile di fine Ottocento e dell'inizio del Novecento; le ville e i palazzi di una borghesia che voleva sentirsi all'altezza della vecchia aristocrazia cittadina.Chi giunge a Palermo potra' sentire ancora oggi gli echi di una citta' che, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, aveva scelto il modernismo, la cosiddetta art-nouveau, per realizzare opere che mostrassero la ricchezza e il prestigio di una borghesia imprenditoriale in ascesa. Una classe che intendeva costruire teatri piuttosto che chiese, e poi palazzi e ville all'altezza di quelle dell'antica aristocrazia. Ecco il liberty. Si mostra glorioso negli interni del Teatro Massimo ai quali lavoro' Ernesto Basile che diresse i lavori dal 1891, anno della morte del padre Giovan Battista Filippo ideatore del progetto iniziale, o nello splendido salone di Villa Igiea affrescato da Ettore De Maria Bergler in una esplosione di fanciulle in fiore tra iris, papaveri e melograni. Ma effigie di uno stile che rappresenta meglio di ogni altro un modo di vivere, e' anche il ritratto di Franca Florio come ci giunge attraverso la pennellata rapida, eccentrica del pittore Giovani Boldini. Il quadro, oggi perduto, e' noto soltanto attraverso alcune riproduzioni. Sembra che sia stato rifatto da Boldini per ben due volte: a Ignazio Florio non piaceva l'aria lasciva che il pittore aveva attribuito a sua moglie, splendida e ammiratissima figlia del barone di San Giuliano. Bisogna ammettere pero' che anche nella seconda versione Donna Franca appare in tutta la sua sensuale bellezza. Ha uno sguardo perso a immaginare chissa' cosa, uno scollatissimo abito che pare decorato con inserti tratti da un repertorio di stoffe art-nouveau, e porta al collo il suo celeberrimo filo di perle lungo sette metri. La stessa collana che indossa in una foto scattata nel 1904 mentre riceve l'Imperatore Guglielmo II nel parco della sua casa, appena rinnovata, all' Olivuzza. Ma ritorniamo alla via Libertà. Oggi quelle ville, quei palazzi in stile liberty, purtroppo, non esistono più in quanto una spregiudicata speculazione edilizia ( frutto di del malgoverno di una classe politica durata più di vent'anni che aveva trovato in tale attività un'ottima fonte di reddito e di riciclaggio per il danaro sporco della mafia del tempo <-1950-1975> a cui era saldamente legata) ha fatto del cemento armato uno stile e una cultura di vita, facendo perdere alla via quel fascino originario che aveva al tempo delle realizzazioni architettoniche di Ernesto Basile che del liberty palermitano è l'esponente preminente.

Il nome alla via fu dato dai patrioti del 1848 che ne tracciarono il percorso, creando quel pomone urbanistico che congiungeva il centro storico con il parco della Favorita. Repressi i moti rivoluzionari del '848, tornati i Borbone, la via divenne "via della Real Favorita". Raggiunta l'indipendenza il nome precedente fu ripristinato.

Al termine del viale vi è piazza Vittorio Veneto ove si erge il monumento commemorativo del 27.05.1860, opera di Ernesto Basile (1909-1910) con bassorilievi di Antonio Ugo. Nel 1931, ad opera del Basile, fu aggiunto l'emiciclo che si trasformò in monumento ai caduti.


Lungo il percorso del viale, in piazza Mordini vi è il monumento della Libertà, con l'immagine simbolo dell'aquila; nella successiva piazza Crispi, il monumento al Crispi, opera di Mario Rutelli (1905). Lungo il percorso si incontra il prospetto in stile neo - medioevale del Conservatorio delle Croci (fondato nel 1690 per accogliervi fanciulle povere), che fu costruito da Giovan Battista Filippo Basile.

Proseguendo nel percorso , sulla sinistra c'è Villa Garibaldi, con il monumento a Garibaldi (1892), opera di Vincenzo Ragusa. Alla base del monumento è scolpito un leone, ad opera di Mario Rutelli. Di fronte vi è il Giardino Inglese con all'interno la famosa scultura dei fratellli Canaris, di Benedetto Civiletti.Il Giardino Inglese, realizzato tra il 1850 ed il 1853 su disegno di Giovan Battista Filippo Basile, si ispira ai canoni della tradizione anglosassone, sfruttando ed enfatizzando le caratteristiche orografiche del terreno, snodando percorsi con andamenti sinuosi e piccoli manufatti all'interno: padiglioni, fontane, statue, busti, cippi commemorativi, una serra ed una voliera.


Il parco è strettamente connesso a quello che in origine fu chiamato lo Stradone della via Libertà, aperto nel 1848 a seguito della deliberazione adottata dal giovane e provvisorio Governo rivoluzionario siciliano, che ne comportò la suddivisione in due aree una di fronte all'altra: il Parterre Garibaldi, realizzato su un unico livello, nel quale si erge la statua equestre di Giuseppe Garibaldi, e il Bosco, nel quale si trova la maggior parte dei manufatti interessati dal progetto.

Nell'estate del 2003, dopo quattro mesi di lavori (appalto assegnato riutilizzando residui dei fondi Onu messi a disposizione dalla Prefettura), sono stati restituiti alla città l'intero nonché pregiato parco statuario e la casa del custode del Giardino Inglese. Trentuno, in tutto, gli elementi scultorei recuperati, tra statue, cippi, busti e fontanelle, espressioni della creatività di maestri siciliani: da Benedetto Civiletti a Mario Rutelli, da Antonio Ugo a Ettore Ximenes. Le opere, disposte lungo i percorsi del giardino, presentavano evidenti segni di degrado, provocati dagli agenti atmosferici, da atti di vandalismo, ma anche dall'incuria in cui erano state lasciate per anni. Fra i monumenti restaurati c'è anche la statua equestre che raffigura Giuseppe Garibaldi, posta nel parterre di fronte al giardino (oggi intitolato a Giovanni Falcone e Francesca Morbillo), opera bronzea di Giovan Battista Ragusa sul cui basamento è collocato un leone in bronzo scolpito dal Rutelli.E nuovo smalto è stato dato anche all'ottocentesca casa del custode, ridotta ormai quasi a un rudere. L'edificio, tirato a lucido con un'azione mirata sia alla conservazione che a un vero e proprio recupero formale-estetico e funzionale, è stato riportato al suo originario aspetto, in armonia con la riqualificazione dell'intero parco. Fra le parti della villa recuperate figurano anche l'imponente voliera per gli uccelli e la serra.


Nell'ambito dei lavori, attraverso una ricerca negli archivi della Civica Galleria d'arte moderna “Empedocle Restivo”, e grazie anche ad alcune testimonianze, sono stati ritrovati e ricollocati decine di frammenti di statue di marmo, oltre alla mano di bronzo della Piccola vedetta lombarda, statua che si trova in prossimità dell'ingresso da via Libertà. I frammenti, tutti ben conservati, sono stati rinvenuti nei depositi della stessa Galleria. Inoltre, sono stati restaurati e ricollocati sui loro piedistalli originali due busti in marmo che ritraggono Felice Cavallotti e Nino Bixio, rinvenuti nei magazzini dei giardinieri del Giardino Inglese.

I lavori hanno portato anche al recupero di una vasca che, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, veniva utilizzata per l'accumulo dell'acqua ad uso irriguo e che poi, negli anni Sessanta, era sta soprelevata con un cordolo in cemento armato di un metro e mezzo. Il cordolo, adesso, è stato rimosso. La vasca, riportata alla sua altezza originaria e nuovamente ben visibile, è stata trasformata in una fontana con pesci, piante acquatiche, zampilli d'acqua e un nuovo impianto di illuminazione che consentirà di apprezzarne il valore ornamentale anche nelle ore serali.


Nell'ambito dei lavori è stato anche demolito un manufatto degradato che si trovava tra la Casa del custode e l'attigua villa Pottino. L'edificio, ormai in disuso e pericolante, aveva ospitato fino a quindici anni fa il laboratorio di un calzolaio. Nel '91, cessata tale attività, era stata emanata dal Comune un'ordinanza di demolizione dell'immobile, mai eseguita fino ad ora. Al posto della vecchia e cadente costruzione, è stato realizzato un prato. Sono stati rifatti, inoltre, circa venti metri di recinzione della villa, laddove prima sorgeva il muro perimetrale del manufatto.

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La storia del blog nasce nel 1997 in America, quando lo statunitense Dave Winter sviluppò un software che permise la prima pubblicazione di contenuti sul web. Nello stesso anno fu coniata la parola weblog, quando un appassionato di caccia statunitense decise di parlare delle proprie passioni con una pagina personale su Internet. Il blog può essere quindi considerato come una sorta di diario personale virtuale nel quale parlare delle proprie passioni attraverso immagini, video e contenuti testuali. In Italia, il successo dei blog arrivò nei primi anni 2000 con l’apertura di diversi servizi dedicati: tra i più famosi vi sono Blogger, AlterVista, WordPress, ma anche il famosissimo MySpace e Windows Live Space. Con l’avvento dei social network, tra il 2009 e il 2010, moltissimi portali dedicati al blogging chiusero. Ad oggi rimangono ancora attivi gli storici AlterVista, Blogger, WordPress e MySpace: sono tuttora i più utilizzati per la creazione di un blog e gli strumenti offerti sono alla portata di tutti. Questo blog, invece, nasce nel 2007; è un blog indipendente che viene aggiornato senza alcuna periodicità dal suo autore, Francesco Toscano. Il blog si prefigge di dare una informazione chiara e puntuale sui taluni fatti occorsi in Sicilia e, in particolare, nel territorio dei comuni in essa presenti. Chiunque può partecipare e arricchire i contenuti pubblicati nel blog: è opportuno, pur tuttavia, che chi lo desideri inoltri i propri comunicati all'indirizzo di posta elettronica in uso al webmaster che, ad ogni buon fine, è evidenziata in fondo alla pagina, così da poter arricchire la rubrica "Le vostre lettere", nata proprio con questo intento. Consapevole che la crescita di un blog è direttamente proporzionale al numero di post scritti ogni giorno, che è in sintesi il compendio dell'attività di ricerca e studio posta in essere dal suo creatore attraverso la consultazione di testi e documenti non solo reperibili in rete, ma prevalentemente presso le più vicine biblioteche di residenza, mi congedo da voi augurandovi una buona giornata. Cordialmente vostro, Francesco Toscano.