Raccontare storie è da sempre stato il mio
sogno. In questi ultimi anni ci ho provato più volte, riuscendo, peraltro, a
raggiungere il mio obiettivo per ben sette volte. Scrivo per dar sfogo al
desiderio della mia anima di viaggiare, di spaziare, di vivere esperienze di
vita che mai vivrò. Non scrivo per lucrare. Non scrivo per arricchirmi, ma per
il gusto di farlo e basta. E in questo senso ho da poco abbozzato una storia di
fantascienza, ancora in fase embrionale, che sarà ambientata su
Marte. Marte, un luogo in cui mi piacerebbe andare un giorno a vivere. Mi
potrete dire che sono un pazzo e un visionario, ma qualcosa mi fa supporre che
fra qualche anno l'umanità, qualche individuo della nostra specie, vi abiterà
in pianta stabile. E allora che il racconto abbia inizio.
Francesco Toscano
I 12 MARZIANI
di Francesco Toscano
Prologo.
Scrivo queste pagine, oggi, prima che i
miei occhi si chiudano per sempre, a testimonianza delle tribolazioni che io ho
vissuto in quei giorni tetri e apocalittici, affinché possa rimanere memoria di
chi eravamo noi terrestri prima che ogni cosa cambiasse per sempre; prima che
lasciassimo il nostro pianeta d’origine alla ricerca di un mondo alieno ove
poter sopravvivere il più a lungo possibile alle nostre stesse nefandezze,
consapevoli che sarebbe stato oltremodo difficile raggiungere un pianeta simile
al nostro o che, a distanza di anni, noi esseri umani lo potessimo trasformare
in una nuova Terra. Questa è la storia del Genere Umano all’inizio dei
cosiddetti viaggi a velocità superluminale. Questa è la mia storia, della mia
famiglia, di quanti, a differenza mia che sono ormai vecchio e stanco, hanno
lottato e continuano a lottare, giorno dopo giorno. Una storia lunga
cinquant’anni, fatta da insidie e di tante privazioni, ma anche di tanto amore
e di tanti piccoli successi. Una storia che ha dell’incredibile, poiché mai
avrei immaginato di dover lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, per
vivere in un mondo alieno ove in ogni istante si rischia di morire tra mille
spasmi atroci.
Uno.
Le condizioni socio-ambientali, a quei
tempi, ovvero nel trentennio del nuovo millennio, non erano tra le più
favorevoli da vivere per ogni essere umano abitante il pianeta Terra: il Sole
aveva dato di matto e i suoi raggi ultravioletti avevano irreparabilmente
danneggiato l’atmosfera di un mondo già ansimante e morente. Erano i tempi in
cui Carl, Terry, Rosmery, i miei tre fratelli più grandi, faticavano a
racimolare gli alimenti necessari per il nostro fabbisogno giornaliero. Erano i
tempi in cui l’umanità tutta era stata costretta ad armarsi; periodi, ricordo,
in cui era usuale trovare qualche morto ammazzato sull’asfalto della strada in
cui si trovava la nostra umile dimora, un po' sgangherata, che si andava
sgretolando, giorno dopo giorno, come un biscotto. Qualcuno, stanco di
digiunare, esplodeva, ripetutamente, contro qualche malcapitato individuo dei
colpi d’arma da fuoco pur di impossessarsi del cibo che questi possedeva o che
era riuscito a raccogliere nelle prime ore notturne: non era molto a dire il
vero. Come se nulla fosse, poi, di volta in volta, il cadavere dell’uomo
assassinato come una bestia veniva lasciato in stato di abbandono sull’asfalto
a decomporsi lentamente. L’aspettativa di vita, a quei tempi, era breve. Io,
Joseph Migliorini, in quegli anni ero un diciottenne rimasto da poco orfano.
Mio padre e mia madre erano rimasti vittime di un virus letale che nel 2025 era
diventato incontrollabile e senza possibilità alcuna di cure mediche, che aveva
strappato tante di quelle vite che non era più possibile tenerne il conto. Nel
quartiere dove abitavamo non era rimasto più niente e nessuno. Un mondo freddo,
sebbene alle prime luci dell’alba il termometro segnasse perennemente i 47°, e,
soprattutto, privo di gioia. Ero un orfano tra migliaia di orfani. Grazie ai
miei tre fratelli ero riuscito, non so bene come, a sopravvivere alle avversità
insormontabili che la natura ci metteva contro giorno dopo giorno. Nelle mie
orecchie riecheggiano ancora oggi, dopo quasi settant’anni, le urla di
disperazione dei sopravvissuti a quel nefasto destino. Di giorno si bruciava
vivi, di notte si tremava dal freddo. I governi di allora, per far fronte
all’imminente Apocalisse e all’estinzione della nostra specie, erano riusciti a
creare, dopo sforzi encomiabili e storici, delle stazioni spaziali poste a
ridosso dell’orbita lunare e in quella ancora più remota del pianeta Marte,
luogo in cui i più fortunati tra tutti i sopravvissuti erano riusciti anni dopo
a pervenire, al fine di garantire la sopravvivenza del Genere Umano. Anch’io
ero riuscito, contro ogni logica, a raggiungere Marte a bordo della decima
navetta che il governo aveva lanciato verso il Pianeta rosso, da una delle basi
di lancio di recente costruzione; lì ero stato deportato contro il volere mio e
dei miei fratelli, che erano stati nel frattempo trucidati da uomini senza
scrupoli, a bordo di un aereo di linea. Essi, diversamente da me, non erano
pronti ad affrontare il viaggio. Mesi dopo, infatti, venni a sapere che ero
geneticamente predisposto a vivere su quel pianeta, grazie ad una modificazione
genetica che consentiva al mio organismo di adattarsi perfettamente
all’atmosfera rarefatta di Marte. A dire dei dottori avevo maggiori probabilità
di sopravvivere in quell’ambiente alieno più di tutti gli altri sopravvissuti
che erano stati deportati come me. Molti, infatti, restarono sulla Terra in
attesa di morte certa. Dopo mesi di viaggio, otto per l’esattezza, la nostra
navetta spaziale era riuscita ad ammartare “nei pressi” della stazione marziana
“New Millenium”, che tra gli anni 2025-2030 dei robot intelligenti erano
riusciti a costruire per la nostra sopravvivenza nelle vicinanze del polo nord
di quel pianeta. Un viaggio da incubo il nostro, in cui fummo inscatolati,
letteralmente, dentro una navetta spaziale di fortuna, come sardine sotto sale.
Alcuni dei viaggiatori morirono durante il viaggio di sola andata Terra –
Marte, mentre altri perirono dopo pochi giorni del loro arrivo sul suolo
marziano. A quel tempo la nostra tecnologia non ci consentiva di raggiungere i
pianeti del nostro sistema solare in tempi brevi, diversamente da quanto accade
oggi con la recente tecnologia che consente di effettuare viaggi a velocità
superluminale. Eravamo da poco ammartati, se ben ricordo, quando scoprimmo di
non essere per nulla adatti a vivere su quel pianeta in cui fummo catapultati
disperatamente. Se non fosse stato per le nostre lucenti tute spaziali, che ci
consentivano di respirare l’ossigeno riposto nei contenitori che portavamo
sulle spalle, nessuno di noi avrebbe mai potuto raccontare le nostre gesta ai
posteri. Io e la mia famiglia siamo rimasti gli ultimi della nostra specie, 12
individui in tutto, poiché gran parte degli esseri umani è deceduta sia per le
avversità di dover vivere in un pianeta inospitale alla vita, o lungo la sua
orbita, sia perché all’alba del 2060 i sopravvissuti, incuranti della nostra
storia, che nulla aveva portato di buono agli esseri umani, si erano convinti a
sfidarsi all’ultimo sangue in quella che è passata alla storia come la guerra
“dei dieci anni della prima era spaziale”, conflitto intercorso fra i
sopravvissuti di stanza sulla Luna e quelli di stanza su Marte; la belligeranza
tra i due popoli del “cielo” era scaturita, ahinoi, per l'approvvigionamento
delle carenti materie prime necessarie alla loro sopravvivenza fuori dai
confini terrestri. Io, che oggi mi accingo a compiere ottant’anni, e che
dall’età di cinquanta scrivo queste mie memorie, sono il patriarca dell’ultima
colonia marziana superstite. Oltre me, a condividere questi miei ultimi Sol
marziani che mi restano da vivere sono rimasti mia moglie, Aurora, di
settantacinque anni, mio figlio Michael, di cinquant’anni, mia nuora Elena, di
quarantacinque anni, e i miei otto nipoti, quattro maschi e quattro femmine,
sul conto dei quali, al momento, non ricordo i loro nomi, che so essere tutti
adolescenti. La mia mente, ahimè, denota i segni del tempo trascorso in questo
inferno.
Posso raccontare la mia storia, non solo
perché io sia stato di tempra forte e robusta, ma perché in tutti questi anni,
a differenza di altri miei simili, sono stato aiutato a sopravvivere su questo
ostile pianeta da quegli stessi robot costruttori che in tempi antichi
edificarono la nostra prima stazione marziana, poi evolutisi autonomamente,
così riuscendo a connettere gran parte delle infrastrutture da loro create e ad
oggi ancora esistenti su Marte. Negli ultimi anni, inaspettatamente,
l’Intelligenza Artificiale creata dall’uomo ha preso coscienza di sé, dettando,
di fatto, le regole d’ingaggio e facendo rispettare agli umani le regole per la
sopravvivenza della specie. Era necessario che qualcuno si prendesse cura di
noi poveri mortali, giunti quasi all’estinzione, ma mai avrei pensato che
potessero essere le nostre stesse creature cibernetiche, progettate e costruite
per agevolarci quotidianamente, per fare quel lavoro cosiddetto “sporco” che
noi non saremmo riusciti a realizzare. Le macchine e l’IA, in circa vent’anni,
erano riuscite a creare una rete di connessione assimilabile a quella neurale, sviluppando
ad hoc dei software di gestione in grado di analizzare, condividere, sfruttare
quella mole di dati sino ad allora acquisita dal primo giorno della loro
permanenza su quel pianeta.
Due.
All’alba del sesto Sol marziano io e gli altri tre sopravvissuti, Red,
Clif, Johannés, lasciata la navetta spaziale su cui avevamo sino ad allora
viaggiato, dopo cinque giorni dall’ammartaggio e dopo aver recuperato le nostre
forze, trovammo rifugio in una cavità creatasi naturalmente nella roccia
marziana, ovvero un cunicolo lavico formatosi in tempi antichi. Ricordo che
prima che fossimo stati in grado di raggiungere “New Millenium”,
distante da noi oltre 1000 km, lì saremmo dovuti rimanere ad abitarvi per anni,
a riparo di quei raggi cosmici mortali, dalla tempesta di polvere che poi
nell’anno 2035 avvolse l’intero pianeta, preoccupati di poter morire da un
momento all’altro, atteso anche che le nostre riserve di cibo, di acqua
potabile, di aria, che ci avrebbero garantito la sopravvivenza lontano dalla
stazione marziana, che ci avrebbe dovuto ospitare sin dal primo giorno del
nostro arrivo sul Pianeta rosso, erano sufficienti per pochi anni di vita
marziana. Gli altri nostri sei compagni di viaggio erano purtroppo deceduti
durante il viaggio Terra - Marte. Le comunicazioni radio e satellitari con la
stazione marziana di destinazione erano state interrotte, prima di toccare il
suolo marziano, dalla inaspettata avaria del modulo di trasmissione che era
stato installato sulla nostra scialuppa di salvataggio, da noi apostrofata
“latta di metallo”, ovvero il nostro vascello spaziale che era più simile a un
catafalco che a una nave, e prima ancora che noi umani riuscissimo a calpestare
il suolo polveroso di Marte. Non ricordo i nomi dei miei compagni deceduti. Di
Red, di Clif, di Johannés, pur tuttavia, ricordo tutto. Ricordo le loro risate,
le loro grida festose e di giubilo per essere riusciti a sopravvivere a quel
viaggio lungo otto mesi, a differenza degli altri nostri simili che erano stati
più sfortunati di noi. Non eravamo degli astronauti professionisti; eravamo
un’accozzaglia di esseri umani, di razza diverse: uno era caucasico; uno era
asiatico; un altro era di origine africana. Essi avevano vissuto, sino ad
allora, esperienze diverse l’uno dall’altro e che avevano ricevuto un
addestramento sommario affinché potessero raggiungere quel puntino rosso che si
stagliava alto nel cielo; era quello che si notava dal nostro punto di
osservazione terrestre, allorquando contemplavamo il cielo notturno prima della
nostra avventura spaziale. Dei buontemponi, oggi li giudico così ma all’epoca
erano per me dei carnefici, decisero che noi tutti dovessimo sopravvivere a
quel viaggio, che avremmo dovuto effettuare nello spazio profondo, tra mille e
più insidie, a rischio di dover perire solo dopo aver lasciato le fasce di Van
Allen. Il Grande Architetto, Dio, non so dirvi chi sia stato, ha deciso per noi
che non dovessimo morire, che noi dovessimo crescere e moltiplicarci, benché la
nostra specie non fosse stata in grado di scrollarsi di dosso la nostra storia
millenaria, intrisa di guerre intestine, per la conquista di lembi di terra,
guerre a non finire che ci hanno contraddistinto come una delle specie più
guerrafondaie dell’Universo. I primi giorni della nostra missione esplorativa
su Marte io, e gli altri tre miei compagni d’avventura, riuscimmo a trasportare
all’interno del cunicolo lavico quanto fosse necessario per la nostra
sopravvivenza. Sulla Terra, alcuni scienziati che erano sopravvissuti al virus
letale diffusosi in tutto il mondo e ai capricci della nostra stella, prima
della nostra partenza alla volta di Marte, ci avevano insegnato a fabbricare
l’ossigeno necessario alla nostra sopravvivenza nell’ambiente ostile marziano,
attraverso dei macchinari che avremmo dovuto assemblare una volta toccato il
suolo alieno; a ricavare l’acqua potabile dalla coltre di ghiaccio perenne
presente sul Pianeta rosso e in entrambi i due poli, attraverso dei macchinari
che erano già stati stoccati a bordo della nostra astronave. Il cibo necessario
alla nostra sopravvivenza sul quarto pianeta, avuto riguardo alla sua distanza
dal Sole, la stella del nostro sistema solare, quello sì che era stato, sin da
subito, un problema da risolvere al più presto. Le scorte di cibo a nostra
disposizione erano poche e bastavano, volendole razionare per tutti
e quattro i sopravvissuti, solo per cinque interminabili anni. Fummo
costretti ad affinare l’ingegno, e quattro baldi giovani, benché fossero dei
pionieri dell’esplorazione marziana, riuscirono a divenire, anche grazie alla
presenza di semi di quinoa, di piselli, di pomodori e di rucola, contenuti
all’interno di trecento involucri stoccati nella stiva della navetta, i primi
agricoltori del nuovo mondo. Noi quattro ci saremmo potuti dedicare alla
produzione di quelle colture all’interno di una serra a Led e colture
idroponiche creata ad hoc, dopo aver studiato per giorni dei video tutorial
registratati a Terra, e attraverso l’uso di strumenti, utensili e materiali già
presenti a bordo della nostra maledetta navetta. Eravamo riusciti, così, a
colonizzare Marte, benché per un breve lasso di tempo. Le lampade a Led
installate da noi quattro sopravvissuti, avrebbero sostituito all’interno di
quel luogo angusto, largo solo 20 metri quadri, il Sole, come se fossero degli
stimolatori di fotosintesi ed emettendo le stesse frequenze della luce del
Mediterraneo. Superato il quindicesimo Sol, forti della nostra perspicacia, del
nostro acume, eravamo pronti, protetti dalle nostre avveniristiche tute
spaziali, a delimitare il nostro “campo base”.
Tre.
- Padre, ancora scrivi? -
- Sì Michael, lo sai che per me è importante! -
- Sei stanco papà, vai a letto, domani è un altro giorno. Avrai altro tempo
per scrivere, per raccontare la tua storia alla nostra progenie. -
Ero davvero stanco e in cuor mio ne ero consapevole; mio figlio aveva
ragione. Ma la mia storia doveva essere narrata, anche a costo di perderci la
vista. Entrò nella stanza mia moglie che, dopo essersi avvicinata a me, mi
bacio amorevolmente sulla guancia destra. A lei raccontai di essere arrivato
quasi alla fine della storia, malgrado tutto, e che mi restavano da completare
pochi capitoli.
Mi disse:
- ma chi vuoi che li legga?-
- i miei nipoti!-
- ma i tuoi nipoti hanno altro a cui pensare, sciocco!-
- Non è vero! Vedrai che un giorno avranno bramosia di sapere delle loro
origini, del perché siamo qui, sebbene oggi noi viviamo discretamente bene, e
non all’interno di quel puntino blu che brilla nel cielo notturno di Marte.-
- Tu guardi ancora il cielo?-
- Sì, perché tu no?-
- No! Io ormai guardo solo per terra, onde evitare di precipitare
rovinosamente sulla polvere. Andiamo a letto, dai! Si è fatto tardi, amore mio,
vedrai che domani troverai le parole giuste per iniziare il tuo prossimo
capitolo.-
Ubbidii. Spensi il computer e dopo aver stretto amorevolmente mia moglie
tra le mie braccia mi addormentai, colto da un sonno dai benefici effetti
ristoratori.
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