Francesco Vassallo,
di anni sessantacinque, corporatura robusta, poco più alto del muro di cinta
che delimitava il suo feudo in località “Punta
Aguglia”, che era solo un metro e sessanta, era divenuto capo famiglia a
soli quarant’anni e solo dopo aver collezionato una sfilza di precedenti penali
per delitti contro il patrimonio e la persona che avevano tanto fatto
preoccupare il maresciallo Comandante della Stazione Carabinieri del luogo.
Il maresciallo,
pertanto, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del
Novecento, come “estrema ratio”, al
solo fine di frenare la capacità delinquenziale del Vassallo, era stato
costretto a segnalarlo alla Questura di Agrigento affinché adottasse tutte
quelle misure di competenza che potessero sortire l’effetto sperato e in specie
limitarne la libertà d’azione.
Nel 1993, Francesco
Vassallo, dopo che qualche anno prima era stato avvisato oralmente dal Questore
della Provincia di Agrigento a non commettere più delitti, venne sottoposto
alla Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza di anni tre, con obbligo di
dimora nel comune di residenza.
Il Vassallo era anche
conosciuto nell’ambiente criminale come “ù
pastranu” in quanto avvezzo ad indossare “nu cappuottu luongu ca' arriva 'nde pieri come chiddu ca usavunu
l'antichi quannu si truavunu supra u scieccu o sopra lu mulu.”
Don Ciccio, pertanto,
sulla scorta della misura di prevenzione erogata a suo carico, se ne stava
rintanato tutto il giorno, anche al fine di poter agire liberamente e
continuare a dettare legge, lontano da occhi ed orecchie indiscrete,
all’interno del suo feudo, uno sterminato appezzamento di terreno, di quasi
trenta tummini, ossia duecentoquindici tumuli circa, che per intenderci sono
circa duecentotrentaquattromila e settecento metri quadrati, all’interno del
quale, alla fine dell’Ottocento, il suo bisnonno aveva fatto edificare una
villa sfarzosa con tutti i confort di quel tempo.
Lungo il muro di
cinta che delimitava il feudo di “Punta
Aguglia”, alcuni “campieri”, che
portavano al seguito la lupara, fungevano da sentinelle.
Sembrava che fosse
una fortezza inespugnabile la residenza di Don Ciccio “ù pastranu”; tale fu l’impressione che ebbe Mimì allorquando si
accinse ad entrare all’interno della suddetta proprietà. Mimì venne allora
bloccato da due campieri che gli chiesero chi fosse, che cosa cercasse lì, e se
portasse al seguito armi o oggetti atti ad offendere, perquisendolo
sommariamente, tanto che, ad un tratto, a Mimì gli si era chiusa la bocca dello
stomaco per lo spavento.
«Sabbenerica!» Disse Mimì ai presenti.
«Sabbenerica a vossia!» Risposero i due campieri.
«A cu circati?”
«A Don Ciccio. C’avissi a parrari, si mi po’ arriciviri…. E’ possibili?»
Concluse Mimì.
«Nca ciertu! Nu minutu cuntatu, u tièmpu ca jamu e turnamu. Assittativi
ca, ntâ stu pitruni. Ora turnamu.»
Così dicendo i due
uomini armati si allontanarono addentrandosi in una fitta boscaglia, lasciando
il Mimì da solo intento a ragionare su quello che avrebbe dovuto dire a Don
Ciccio, di come si sarebbe dovuto comportare, ed in particolare se gli avesse
dovuto fare l’inchino, il baciamani..
La sua mente era
confusa. Sudava freddo. Gli faceva male lo stomaco. Le gambe avevano cominciato
a tremargli.
Trascorsero più di
due ore da quando Mimì era giunto all’interno del feudo, ma nessuno gli aveva
fatto sapere qualcosa. Dei due campieri, e soprattutto di Don Ciccio, nessuna
traccia.
Aspettò, aspettò a
lungo. Infine, quando erano da poco trascorse quattro ore dal momento in cui si
era seduto su quel masso, che gli aveva ridotto il sedere in un colabrodo, vide
in lontananza due uomini che si avvicinavano al luogo in cui egli si trovava,
in sella a due giumente.
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