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sabato 18 maggio 2024

"Che cosa scrivo adesso?"

 

 

 

 




 

“Che cosa scrivo adesso?”

Di Francesco Toscano


 

Premessa.

 

“Che cosa scrivo adesso?”

È l’idea, ovvero la domanda, che più spesso mi è balenata in testa in quest’ultimo periodo di tempo, ma alla quale non sono stato in grado di dare una risposta esaustiva. Eppure, così come mi ha detto qualcuno in passato, la fantasia non mi manca e non mi è mai mancata. Ma adesso non è un problema di fantasia: è un problema di stress psico-fisico! Per quello, ahimè, non ho, al momento, un rimedio efficace.

Ma, bando alle ciance, vorrei oggi raccontarvi una storia, una vicenda contraddistinta da mille e più sfaccettature, che ho da sempre sperato e sognato di scrivere.

È la storia di taluni ragazzi cresciuti nel quartiere Brancaccio di Palermo, proprio come me.

Un quartiere, quello di Brancaccio, posto a sud-est del capoluogo siciliano; uno tra i più popolosi e popolari, fra l’altro, della mia città natia che è passato alla ribalta della cronaca nera per omicidi di mafia efferati.

Negli anni Settanta del secolo scorso, quando ero un bambino, gran parte del quartiere era ricco di appezzamenti di terreno coltivati ad ortaggi: per lo più cavolfiori e asparagi, finocchi e patate e, talvolta, anche piantumato con qualche vitigno autoctono e qualche agrumeto.

Via Giacomo ALAGNA, l’arteria stradale dove sono cresciuto, giocando per strada con altri miei coetanei, era ricca di appezzamenti di terreno coltivati in tal guisa; vi era, ricordo, anche una fabbrica, dismessa ormai da anni, sorta ai primi del Novecento, per la distillazione dell’olio di colza: opificio industriale che i vecchi chiamavano “a fabbrica ò nuzzo (o nuozzo)”.

All’epoca dei fatti, così come lo è oggi, detta via era delimitata a nord dalla via Messina Marine, mentre a sud dalla via S. 35, oggi via Padre Giuseppe PUGLISI, il prete cattolico ucciso dalla mafia negli anni Ottanta del secolo scorso, il cui appartamento, oggi adibito a casa museo, era posto a breve distanza da quell’ampio stradone; a ridosso di questa strada, su cui oggi sfreccia “Genio”, il tram della linea 1 dell’AMAT, sorgeva e sorge la scuola elementare Nazario Sauro: il circolo didattico da me frequentato da bambino; essa, poi, era ed è intersecata a sinistra, per qui guarda in direzione del mare, dalla via CARLOTTO e dalla via PIGAFETTA; mentre a destra dalla via Gino FUNAIOLI.

Ma questa non è la storia delle strade di Palermo o di Palermo, o della toponomastica che contraddistingue il quartiere Brancaccio, così come non lo è di Brancaccio in senso stretto e della delinquenza diffusa che lì prosperava e prospera: è la storia di alcuni bambini, divenuti poi dei ragazzi, ormai degli uomini adulti, con figli e nipoti al seguito, che lottarono e continuano a lottare per non cadere nelle maglie dell’illegalità diffusa del quartiere; questa zona geografica di Palermo, che nell’Ottantadue del Novecento registrò decine e decine di morti ammazzati per mano di vili mafiosi che si definivano e tutt’ora si definiscono “uomini d’onore”, ma il cui comportamento delinquenziale, pur tuttavia, di “onorevole” ha ben poco, è il proscenio in cui è ambientato questo mio nuovo racconto.

Ci ho riflettuto parecchio, negli ultimi tempi, e penso che tra i personaggi di cui parlerò non può non mancare F.M., alias “Marco”, scomparso a seguito di un tragico incidente stradale lo scorso anno e che io da bambino ammiravo per la sua tenacia e caparbietà.

Poi, a seguire, parlerò di S.V., alias “Enzo”, anch’egli scomparso qualche anno fa per un carcinoma che lo ha consumato come una candela su cui ardeva una fiamma splendente, a volte abbacinante, uno dei bambini che come me frequentavano la scuola elementare Nazario Sauro.

In seguito racconterò della vicenda umana di V.V., alias “Totò”, che, dopo tanti anni di sacrifici, è riuscito ad affermarsi nel campo dell’infermieristica ed oggi esercita la sua ordinaria attività lavorativa presso un nosocomio cittadino.

Parlerò di tanti altri abitanti del quartiere, che ho avuto modo di incontrare negli ultimi tempi, un’umanità multi variegata, che lavora, paga le tasse e cerca di affrancarsi, sempre di più da quello stereotipo che contraddistingue il cittadino residente nel quartiere che è tristemente legato, a doppia mandata, alla storia degli ultimi quarant’anni di Palermo.

 

Francesco Toscano


 

 

Uno.

 

Marco era davvero un bel bambino; all’età di quindici anni, ricordo, era il più alto fra tutti gli altri suoi coetanei, giacché sfiorava il metro e ottanta centimetri di altezza. Di lui ho un vivido ricordo: era tenace, caparbio, estroverso, giocoso, pieno di vita, solare. Ma la vita, purtroppo, dopo avergli voltato le spalle in maniera beffarda, lo avrebbe abbandonato definitivamente sulla soglia dei Sessant’anni, in seguito ad un tragico incidente stradale sulla circonvallazione di Palermo, nei pressi del quartiere Bonagia. Ma questo Marco non lo sapeva allora. Perché lo avrebbe dovuto sapere? Chi mai glielo avrebbe potuto riferire che la sua vita sarebbe terminata tragicamente, quando ancora era un adolescente allegro e pieno di vita? Un giorno, ricordo, egli decise, sulla scia del fenomeno “Mundialito[1], che era andato in onda in Tv a quel tempo, di organizzare un torneo di calcio per i bambini che abitavano a ridosso dell’intersezione viaria esistente tra la via G. Alagna e la via G. Funaioli. A quel tempo, all’incrocio tra via G. Alagna con la via G. Funaioli era presente un pezzo di strada, asfaltata dal Municipio, che terminava su di un appezzamento di terreno, coltivato ad ortaggi, penso che fossero dei cavolfiori, di proprietà di un tale a nome V., alias vassallus, oggi deceduto, che, bontà sua, era solito bucare i palloni in cuoio utilizzati dai bambini che abitavano a breve distanza da quell’appezzamento di terreno e che cercavano, in barba a tutti, di sfidarsi nelle varie partite di un torneo di calcio che sarebbe stato da loro giocato su di quella angusta arteria stradale, da poco resa fruibile dall’asfalto nero di catrame ivi posatovi, bruciata dal sole d’estate di un torrido anno 1981; la sorte, ahinoi, aveva voluto che arrivassero all’interno dell’appezzamento di terreno, chiuso e delimitato da lamiera zincata, coltivato dal vassallus e che questi amorevolmente zappava con tanta fatica, i nostri numerosi palloni, inizialmente dei “Super Santos” e, infine, alcuni in cuoio con camera d’aria. Ma all’epoca dei fatti né io, né gli altri bambini eravamo in grado di capire perché l’ira si impossessava della mente di quell’uomo ogni qualvolta una palla cadeva all’interno del suo appezzamento di terreno. L’unica cosa che capivamo era che un vecchio, a nostro parere stolido, era solito tagliarci la palla da gioco che con tanti sacrifici i nostri genitori avevano comperato affinché noi ci potessimo divertire. Fischietto in bocca, Marco dirigeva tutti gli incontri di calcio, che sarebbero poi stati combattuti da noi bambini come dei provetti campioni, poi vinti, ricordo il più delle volte, dai nostri spietati avversari, dei bambini abitanti a qualche chilometro di distanza da quella via, che, più di noi, erano davvero bravi a giocare a calcio. Fra tutti, io, ero il più piccolo. Un mio cugino, mio omonimo e che oggi vive al Nord Italia, decise per me che io dovessi difendere la nostra porta, i cui pali, inesistenti, erano fatti dalla prima cosa raccolta per strada che potesse rimanere al suolo e non volar via con la prima folata di vento. Il torneo del nostro “Mundialito”, per ovvi motivi, durò ben poco. Non eravamo in grado di acquistare un pallone al giorno; nessuno di noi lavorava, né i nostri genitori, per lo più operai, erano disposti a spendere i loro averi per acquistare dei palloni di calcio che, in poco tempo, qualcuno avrebbe distrutto e a cui non gli si poteva dire nulla, se non “mi scusi, ma i bambini dove devono giocare?”. A tale domanda, seppure legittima, non seguì mai alcuna risposta da parte dell’anziano contadino che, stanco di dover contrastare con un nugolo di marmocchi e con i loro familiari, si era, a suo dire, “sfastidiatu” per così tanta tracotanza da parte di quei giovani genitori che, invece di tenersi a casa i figli, prediligevano che quei marmocchi giocassero per strada con quei orribili palloni di cuoio, pesanti, che colpendo i suoi ortaggi, frutto di sacrifici e sudore, li distruggeva in maniera definitiva. I bambini, pur tuttavia, non curanti di quanto fosse accaduto loro, qualche giorno dopo ripresero a giocare quelle partite di calcio che avevano lasciato in sospeso. Il torneo, a cui seguirono dei festeggiamenti con tanto di medaglie per i partecipanti e coppa per la squadra vincitrice, si concluse a ridosso del giorno di Natale dell’Ottantuno. Marco ci teneva a che il torneo arrivasse alla fine, non perché si volesse mettere in mostra come arbitro ai nostri occhi da bambini viziati e spensierati, ma perché, in cuor suo, desiderava di poterci dare un futuro diverso e tenerci lontani da quei giovanotti che, come se fossero delle nuove maghe Circe pronti ad ammaliare, attiravano gli adolescenti del quartiere verso il mondo della droga e dello spaccio di eroina. Era il suo primo torneo da arbitro ufficiale. Qualche anno dopo, ricordo, egli mi disse che si era iscritto alla delegazione cittadina della federazione italiana giuoco calcio; era orgoglioso di quanto stava per accadergli. Mi disse che così avrebbe potuto arbitrare delle partite di calcio che contavano per davvero, benché si fossero disputate in quei campi di periferia in cui, purtroppo, i genitori litigano tra loro e con il mister pensando che il figlio, ai loro occhi già campione provetto, non merita di starsene in panchina. Di quei giorni in cui, madido di sudore, mi ritiravo a casa stremato per aver dato tutto me stesso in quel campo di calcio provvisorio, fatto di sangue e catrame, per via dei numerosi incidenti di giuoco, ho un vivido ricordo. Me ne ero dimenticato in tutti questi anni. È bastato leggere su internet della tragedia che ha colpito il mio amico d’infanzia e la sua famiglia che tutto, come se di colpo avessi riavvolto il nastro della mia memoria, racchiuso all’interno di un cofanetto di metallo, così come quei vecchi film in otto millimetri, mi si è palesato davanti gli occhi come se fossi stato nuovamente proiettato in quella realtà dell’essere, attraverso un cunicolo gravitazionale.

to be continued...



[1] La Copa de Oro, o “Mundialito” come è passato alla storia, è un torneo calcistico inventato in Uruguay per celebrare il cinquantesimo anniversario del primo mondiale di calcio. L’idea era di far partecipare in un mini campionato tra dicembre 1980 e i primi giorni del 1981 le sei nazioni che fino a quel momento di erano aggiudicate almeno un’edizione della Coppa del Mondo, con l’Olanda, finalista delle ultime due manifestazioni, a sostituire l’Inghilterra rinunciataria. Ma alle spalle del Mundialito apparvero interessi forti, i diritti televisivi e quelli di immagine che, almeno in Italia, provocarono addirittura una guerra tra la Rai e la neonata emittente privata Canale 5, di proprietà di un giovane e rampante imprenditore, Silvio Berlusconi.

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