Sicilia bedda e amata,cantata e disprizzata...

  • A proposito degli alieni....

    Il saggio dal titolo "A proposito degli alieni....", di Francesco Toscano e Enrico Messina

    Sinossi: Fin dalla preistoria ci sono tracce evidenti del passaggio e dell’incontro tra esseri extraterrestri ed esseri umani. Da quando l’uomo è sulla Terra, per tutto il suo percorso evolutivo, passando dalle prime grandi civiltà, all’era moderna, sino ai giorni nostri, è stato sempre accompagnato da una presenza aliena. Lo dicono i fatti: nei reperti archeologici, nelle incisioni sulle rocce (sin qui rinvenute), nelle sculture, nei dipinti, in ciò che rimane degli antichi testi, sino ad arrivare alle prime foto e filmati oltre alle innumerevoli prove che oggi con le moderne tecnologie si raccolgono. Gli alieni ci sono sempre stati, forse già prima della comparsa del genere umano, e forse sono loro che ci hanno creato.

  • Gli antichi astronauti: dèi per il mondo antico, alieni per quello moderno.

    Il saggio dal titolo "Gli antichi astronauti: dèi per il mondo antico, alieni per quello moderno.", di Francesco Toscano

    Sinossi: Milioni di persone in tutto il mondo credono che in passato siamo stati visitati da esseri extraterrestri. E se fosse vero? Questo libro nasce proprio per questo motivo, cercare di dare una risposta, qualora ve ne fosse ancora bisogno, al quesito anzidetto. L`archeologia spaziale, o archeologia misteriosa, è definibile come la ricerca delle tracce, sotto forma di particolari reperti archeologici o delle testimonianze tramandate nel corso dei millenni, di presunti sbarchi sulla Terra di visitatori extraterrestri avvenuti all’alba della nostra civiltà.

  • Condannato senza possibilità d'appello

    Il romanzo breve dal titolo "Condannato senza possibilità d'appello.", di Francesco Toscano

    Sinossi: Le concezioni primitive intorno all`anima sono concordi nel considerare questa come indipendente nella sua esistenza dal corpo. Dopo la morte, sia che l`anima seguiti a esistere per sé senza alcun corpo o sia che entri di nuovo in un altro corpo di uomo o d`animale o di pianta e perfino di una sostanza inorganica, seguirà sempre il volere di Dio; cioè il volere dell’Eterno di consentire alle anime, da lui generate e create, di trascendere la vita materiale e innalzarsi ad un piano più alto dell’esistenza, imparando, pian piano, a comprendere il divino e tutto ciò che è ad esso riconducibile.

  • L'infanzia violata, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "L'infanzia violata", di Francesco Toscano

    Sinossi: Dovrebbero andare a scuola, giocare, fantasticare, cantare, essere allegri e vivere un'infanzia felice. Invece, almeno 300 milioni di bambini nel mondo sono costretti a lavorare e spesso a prostituirsi, a subire violenze a fare la guerra. E tutto ciò in aperta violazione delle leggi, dei regolamenti, delle convenzioni internazionali sui diritti dell'infanzia. La turpe problematica non è lontana dalla vostra quotidianità: è vicina al luogo in cui vivete, lavorate, crescete i vostri bambini. Ad ogni angolo dei quartieri delle città, dei paesi d'Italia, è possibile trovare un'infanzia rubata, un'infanzia violata.

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "I ru viddrani", di Francesco Toscano

    Sinossi: Non è semplice per un vecchietto agrigentino rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, che consta di svariati grammi di oro e di argento, che la sua badante rumena gli ha rubato prima di fuggire con il suo amante; egli pensa, allora, di rivolgersi a due anziani suoi compaesani che sa essere in buoni rapporti con il capo mafia del paesino rurale ove vive, per poter rientrare in possesso del maltolto. A seguito della mediazione dei "ru viddrani", Don Ciccio, "u pastranu", capo mafia della consorteria mafiosa di Punta Calura, che ha preso a cuore la vicenda umana di Domenico Sinatra, incarica i suoi sodali di mettersi sulle tracce della ladruncola e di far in modo che ella restituisca la refurtiva all`anziano uomo. Qualcosa, però, va storto e fra le parti in causa si acuisce un'acredine che amplifica l'entità del furto commesso, tanto che nel giro di pochi anni si arriva all`assassinio di Ingrid Doroteea Romanescu, la badante rumena resasi autrice del furto in questione.

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il fantasy dal titolo "E un giorno mi svegliai", di Francesco Toscano

    Sinossi: "E un giorno mi svegliai" è un fantasy. Il personaggio principale del libro, Salvatore Cuzzuperi, è un impiegato residente nella provincia di Palermo che rimane vittima di un'esperienza di abduction. Il Cuzzuperi vivrà l'esperienza paranormale del suo rapimento da parte degli alieni lontano anni luce dal pianeta Terra e si troverà coinvolto nell'aspra e millenaria lotta tra gli Anunnaki, i Malachim loro sudditi, e i Rettiliani, degli alieni aventi la forma fisica di una lucertola evoluta. I Rettiliani, scoprirà il Cuzzuperi, cercano di impossessarsi degli esseri umani perché dotati di Anima, questa forma di energia ancestrale e divina, riconducibile al Dio Creatore dell'Universo, in grado di ridare la vita ad alcune specie aliene dotate di un Dna simile a quello dell'uomo, fra cui gli stessi Rettiliani e gli Anunnaki. Il Cuzzuperi perderà pian piano la sua umanità divenendo un Igigi ammesso a cibarsi delle conoscenze degli "antichi dèi", ed infine, accolto come un nuovo membro della "fratellanza cosmica".

  • I ru viddrani, di Francesco Toscano

    Il romanzo giallo dal titolo "I ru viddrani", di Francesco Toscano

    Sinossi: Non è semplice per un vecchietto agrigentino rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, che consta di svariati grammi di oro e di argento, che la sua badante rumena gli ha rubato prima di fuggire con il suo amante; egli pensa, allora, di rivolgersi a due anziani suoi compaesani che sa essere in buoni rapporti con il capo mafia del paesino rurale ove vive, per poter rientrare in possesso del maltolto. A seguito della mediazione dei “ru viddrani”, Don Ciccio, “ù pastranu”, capo mafia della consorteria mafiosa di Punta Calura, che ha preso a cuore la vicenda umana di Domenico Sinatra, incarica i suoi sodali di mettersi sulle tracce della ladruncola e di far in modo che ella restituisca la refurtiva all`anziano uomo. Qualcosa, però, va storto e fra le parti in causa si acuisce un’acredine che amplifica l’entità del furto commesso, tanto che nel giro di pochi anni si arriva all`assassinio di Ingrid Doroteea ROMANESCU, la badante rumena resasi autrice del furto in questione.

  • Naufraghi nello spazio profondo, di Francesco Toscano

    Il romanzo di fantascienza dal titolo "Naufraghi nello spazio profondo ", di Francesco Toscano

    Sinossi: In un futuro distopico l’umanità, all’apice della sua evoluzione e prossima all’estinzione, sarà costretta, inevitabilmente, a lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, alla ricerca di un pianeta alieno in cui poter vivere, sfruttando le conoscenze del suo tempo. Inizia così l’avventura del giovane Joseph MIGLIORINI, di professione ingegnere, e di altri giovani terrestri, un medico, un geologo, un ingegnere edile, che, da lì a poco, a bordo di una navetta spaziale allestita dal loro Governo, sarebbero stati costretti a raggiungere il pianeta Marte, il “nostro vicino cosmico”, al fine di atterrare nei pressi del suo polo nord ove, anni prima, dei robot costruttori avevano realizzato una stazione spaziale permanente, denominata “New Millenium”; tutto questo affinché parte dell’umanità sopravvissuta agli eventi nefasti e apocalittici potesse prosperare su quella landa desolata, tanto ostile alla vita in genere, giacché ritenuta unico habitat possibile e fruibile ai pochi sopravvissuti e alla loro discendenza.

  • Malacarne, di Francesco Toscano

    Libro/E-book: Malacarne, di Francesco Toscano

    Sinossi: Nella primavera dell'anno 2021 a Palermo, quando la pandemia dovuta al diffondersi del virus denominato Covid-19 sembrerebbe essere stata sconfitta dalla scienza, malgrado i milioni di morti causati in tutto il mondo, un giovane, cresciuto ai margini della società, intraneo alla famiglia mafiosa di Palermo - Borgo Vecchio, decide, malgrado il suo solenne giuramento di fedeltà a Cosa Nostra, di vuotare il sacco e di pentirsi dei crimini commessi, così da consentire alla magistratura inquirente di assicurare alla giustizia oltre sessanta tra capi e gregari dei mandamenti mafiosi di Brancaccio, Porta Nuova, Santa Maria Gesù. Mentre Francesco Salvatore Magrì, inteso Turiddu, decide di collaborare con la Giustizia, ormai stanco della sua miserevole vita, qualcun altro dall'altra parte della Sicilia, che da anni ha votato la sua vita alla Legalità e alla Giustizia, a costo di sacrificare sé stesso e gli affetti più cari, si organizza e profonde il massimo dell'impegno affinché lo Stato, a cui ha giurato fedeltà perenne, possa continuare a regnare sovrano e i cittadini possano vivere liberi dalle prevaricazioni mafiose. Così, in un turbinio di emozioni e di passioni si intrecciano le vite di numerosi criminali, dei veri e propri Malacarne, e quella dei Carabinieri del Reparto Operativo dei Comandi Provinciali di Palermo e Reggio di Calabria che, da tanti anni ormai, cercano di disarticolare le compagini mafiose operanti in quei territori. Una storia umana quella di Turiddu Magrì che ha dell'incredibile: prima rapinatore, poi barbone e mendicante, e infine, dopo essere stato "punciutu" e affiliato a Cosa Nostra palermitana, il grimaldello nelle mani della Procura della Repubblica di Palermo grazie al quale potere scardinare gran parte di quell'organizzazione criminale in cui il giovane aveva sin a quel momento vissuto e operato.

  • NAUFRAGHI NELLO SPAZIO PROFONDO : I 12 MARZIANI, GLI ULTIMI SUPERSTITI DELLA SPECIE UMANA , di Francesco Toscano

    Libro/E-book: NAUFRAGHI NELLO SPAZIO PROFONDO : I 12 MARZIANI, GLI ULTIMI SUPERSTITI DELLA SPECIE UMANA,di Francesco Toscano

    Sinossi: In un futuro distopico l’umanità, all’apice della sua evoluzione e prossima all’estinzione, sarà costretta, inevitabilmente, a lasciare la Terra, la nostra culla cosmica, alla ricerca di un pianeta alieno in cui poter vivere, sfruttando le conoscenze del suo tempo. Inizia così l’avventura del giovane Joseph MIGLIORINI, di professione ingegnere, e di altri giovani terrestri, un medico, un geologo, un ingegnere edile, che, da lì a poco, a bordo di una navetta spaziale allestita dal loro Governo, sarebbero stati costretti a raggiungere il pianeta Marte, il “nostro vicino cosmico”, al fine di atterrare nei pressi del suo polo nord ove, anni prima, dei robot costruttori avevano realizzato una stazione spaziale permanente, denominata “New Millenium”; tutto questo affinché parte dell’umanità sopravvissuta agli eventi nefasti e apocalittici potesse prosperare su quella landa desolata, tanto ostile alla vita in genere, giacché ritenuta unico habitat possibile e fruibile ai pochi sopravvissuti e alla loro discendenza. Nel giro di pochi anni, pur tuttavia, a differenza di quanto auspicatosi dagli scienziati che avevano ideato e progettato la missione Marte, l’ingegnere MIGLIORINI e la sua progenie sarebbero rimasti coinvolti in un’aspra e decennale guerra combattuta da alcuni coloni di stanza sul pianeta Marte e da altri di stanza sulla superficie polverosa della nostra Luna, per l’approvvigionamento delle ultime materie prime sino ad allora rimaste, oltre che per l’accaparramento del combustibile, costituito da materia esotica e non più fossile, di cui si alimentavano i motori per viaggi a velocità superluminale delle loro superbe astronavi; ciò al fine di ridurre le distanze siderali dello spazio profondo e al fine di generare la contrazione dello spazio-tempo per la formazione di wormhole, ovvero dei cunicoli gravitazionali, che avrebbero consentito loro di percorrere le enormi distanze interstellari in un batter di ciglia...

mercoledì 21 maggio 2014

"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Sei.


I ru viddrani
di Francesco Toscano

Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.

Sei.

Aveva piovuto sin dalle prime ore del giorno. Alle sei del mattino, quando Patrizio Finazzo si destò, dopo aver spento la sveglia che continuava a suonare imperterrita, che per poco non cadde a terra tanto fu la foga con la quale Patrizio la disattivò, il cielo, visto dalla finestra della sua camera da letto, era plumbeo.
La temperatura era scesa sin sotto i 14° Celsius, segno che l’inverno non voleva proprio saperne di cedere il passo alla primavera.
Dopo essersi recato in bagno, e lì lavatosi, rasatosi, pettinatosi, ed infine impiastricciatosi con quel profumo che sua moglie tanto amava, sembrava che Patrizio fosse pronto per avvicinarsi all’altare maggiore della Chiesa del paese in cui viveva, per ricevere la sua Prima Comunione, anziché preparato per recarsi in ufficio ed intraprendere, così come faceva da circa vent’anni, la sua ordinaria attività lavorativa.
Mentre Finazzo stava per indossare i pantaloni, il telefonino che era poggiato sul comodino di destra della camera da letto squillò.
Patrizio si diresse verso il telefonino che continuava a squillare, nell’intento di capire chi fosse a quell’ora del mattino e successivamente rispondere. Mentre, di corsa, stava superando la pedata del letto matrimoniale, al fine di evitare che il cellulare con quella stupida suoneria gli continuasse a martellare il cervello, così guastandogli la giornata, non essendosi accorto che sul pavimento c’erano le scarpe da ginnastica che si era tolto la sera precedente, inciampò, andando ad urtare rovinosamente contro il baule posto a ridosso dell’armadio che sua moglie, in quel momento all’estero per motivi di lavoro, aveva deciso di acquistare qualche anno addietro per lì custodirvi la biancheria ed il corredo che sua nonna materna le aveva regalato prima di sposarsi.
«Buttana ra miseria, bastarda! Bastardo ru…» non continuò la frase, rendendosi conto che stava per bestemmiare, cosa che lui, cristiano devoto qual era, non poteva permettersi, pena la dannazione perpetua della sua anima.
«Pronto?»
«Ispettore, buongiorno, la Centrale.. sono il Sovrintendente Capo Francesco Catafano.»
«Buongiorno Catafano, mi dica!»
«Mi dispiace disturbarla a quest’ora, ma il Commissario Impastato mi ha ordinato di chiamarla di buon ora, affinché in giornata, dalle ore 09.00 in poi, lei si possa recare all’obitorio presso l’Istituto di Medicina Legale, del Policlinico Universitario di Palermo, in quanto è stata fissata per oggi l’autopsia sul cadavere della badante rumena uccisa il 10 marzo scorso.»
«Ma non c’era più nessun’altro Ispettore che potesse presenziare?»
«Guardi Ispettore, non saprei cosa dirle; così mi è stato riferito. La sto chiamando al fine di comunicarle questo nuovo servizio che lei dovrà svolgere stamani; presenzierà all’esame autoptico unitamente all’Agente Scelto Salvatore Cinquanta, il quale, per quanto è a mia conoscenza, si è già messo in viaggio e la raggiungerà presso la sua abitazione fra qualche minuto. Buongiorno!»
«Vabbè! Ok, buongiorno.»
Non fece in tempo ad agganciare la chiamata giunta sul suo cellulare che qualcuno suonò al citofono.
«Chi è?»
«Ispettore, buongiorno, sono Cinquanta. L’aspetto giù!»
«Va bene Salvatore, dammi cinque minuti che scendo.»
«Va bene, l’aspetto giù, così mi fumo una sigaretta.»
Passarono cinque minuti contati e Patrizio, così come d’accordo, scese giù nel cortile di casa. Si diresse in seguito sulla strada ove lo attendeva Cinquanta all’interno della Fiat Punto, di colore grigio, in dotazione al loro Reparto.
«Ciao Totò, buongiorno!» Disse il Finazzo.
«Buongiorno.» Rispose Cinquanta.
«Hai fatto colazione?» Chiese il Finazzo al suo giovane collega.
«No.»
«Allora andiamoci a prendere qualcosa al bar, da Giovanni, e poi ci organizziamo.»
Così fecero. Era prestissimo. L’orologio dell’abitacolo della Punto indicava che erano le ore 07.30. 
Patrizio e Salvatore avrebbero avuto tutto il tempo del mondo per andare in ufficio, leggere parte del fascicolo relativo all’omicidio della Romanescu, capire quali fossero le priorità della delega d’indagine emessa dal Pubblico Ministero titolare delle indagini,  prendere la valigetta per criminalistica, ove vi erano contenuti svariati kit, fra cui il kit per il prelievo del materiale sub-ungueale, da utilizzare nel corso dell’autopsia, nonché la borsa con la macchina fotografica, dotata di macro, grandangolare, e qualche altro obiettivo, ed infine dirigersi presso l’obitorio.
La Fiat Punto in dotazione al Commissariato di P.S. di Palermo Centro, da cui Patrizio e Salvatore dipendevano, aveva percorso circa 100.000 km.
«E’ giunto il momento di cambiarla!», pensò Patrizio; ma l’amministrazione da cui dipendeva, in quel periodo di spending review, non aveva neanche i soldi per acquistare il carburante per garantire alle pattuglie di eseguire i servizi esterni di perlustrazione.
Patrizio e Salvatore salutarono gli avventori presenti in prossimità del bancone del bar, ordinando a Giovanni di preparare loro il solito: due cornetti e due caffè.
Dopo aver pagato alla cassa, Giovanni, il barista che da circa dieci anni preparava a Patrizio e ai suoi colleghi la colazione la mattina, disse loro che il lavoro di poliziotto era il più bello del mondo, a differenza di quel lavoro di merda che suo padre gli aveva imposto di fare, al fine di garantire la sopravvivenza del bar di famiglia.
Patrizio e Salvatore arrivarono all’obitorio in tempo utile per assistere all’esame autoptico.
Il medico legale osservò inizialmente gli indumenti, nonché la presenza di lacerazioni dei tessuti o di imbrattamenti, rilevando ogni altro dato relativo ad essi. Una volta spogliato il cadavere gli indumenti furono osservati e studiati singolarmente.
Il medico legale, era un quarantenne originario della provincia di Caltanissetta, che Patrizio aveva conosciuto qualche anno addietro, e che ricordava chiamarsi dottor Picarella o Piccarella, non ne era certo, chiese all’agente scelto Cinquanta di documentare fotograficamente tutti i vari momenti dell’esame autoptico.
Picarella o Piccarella, maledetta memoria, pensò Patrizio, procedette, dopodiché, ad ispezionare il cadavere, al fine di verificare quale lesioni esterne mostrasse, oltre a quelle cinque coltellate inferte dall’assassino, presenti fra lo sterno e lo stomaco della giovane donna, che ne avevano causato il decesso.
La salma giaceva nuda sul tavolo settorio.
Patrizio ebbe pietà di quella poveretta. Era stata proprio una bella donna, pensò. Chissà quanti uomini, si chiese, avevano perso la testa per lei?
Dopo aver raccolto i dati inerenti le caratteristiche somatiche generali, agli imbrattamenti sul corpo del cadavere, a tutti gli elementi utili all'identificazione, in seguito il patologo rilevò i fenomeni cadaverici, registrando i risultati dell'esame esterno, ed elencando tutte le caratteristiche fisiche.
Procedette, poi, ad eseguire il primo taglio, a forma di Y.
La coda della Y si estendeva dallo sterno fino l'osso pubico, deviando tipicamente per evitare l'ombelico.
Tutti gli organi rimossi furono pesati individualmente e studiati.
Furono prelevati campioni microscopici della maggior parte degli organi per un'ulteriore analisi. Infine, per concludere, tutti i vasi sanguigni importanti vennero aperti ed esaminati longitudinalmente.
Gli organi vennero ridisposti nel corpo, che venne poi riempito da un materiale riempitore. L'incisione di Y venne ricucita, e l'autopsia venne completata.
«Ispettore Finazzo, farò avere la mia relazione medico-legale al P.M. nei tempi previsti. Intanto, se vuole, il suo ufficio può predisporre il fascicolo dei rilievi fotografici eseguiti durante l’esame e trasmetterlo al P.M. titolare delle indagini, affinché possa avere un quadro generale delle lesioni patite dalla Romanescu.» Concluse il medico legale.
Finazzo e Cinquanta salutarono il dottor Picarella,  e si allontanarono da quel luogo tetro.
Nelle loro menti si erano scolpiti “alcuni frame” dell’autopsia a cui avevano da poco assistito.
Quell’autopsia, pensarono i due sbirri, non l’avrebbero dimenticata nel breve periodo.
Non era stato un bel vedere, dissero i due poliziotti all’unisono.
Eppure, inspiegabilmente, il loro lavoro, e l’esperienza maturata in tutti quegli anni, li avrebbe dovuti preparare ad assistere ad un tale orribile spettacolo.
Finazzo e Cinquanta pensarono, ancora sotto shock per la macabra visione di quel corpo martoriato,  prima di varcare l’uscio della porta che consentiva l’accesso e l’uscita dall’obitorio, che la malvagità umana non ha limiti e confini. Quale mente umana, infatti, era in grado di pensare ed eseguire un omicidio del genere, se non una mente perversa e criminale?
Quale uomo era in grado di arrecare la morte ad una giovane donna, colpendola più e più volte con un coltello dalla lama superiore a venticinque centimetri?
Patrizio e Salvatore si auspicavano che le tracce biologiche prelevate dalle unghie del cadavere della povera badante rumena potessero essere utili alle indagini, al fine di addivenire all’identificazione certa dell’autore del delitto, così portando in dibattimento una prova inconfutabile.

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Questo è l'ultimo post dedicato al libro "I ru viddrani", che sarà pubblicato su questo blog, in quanto è stata raggiunta la percentuale dell'opera che è possibile leggere gratuitamente (circa trenta pagine, cioè il 15% circa dell'opera). L'autore, Francesco Toscano, al termine della stesura dell'opera curerà la sua pubblicazione nel territorio dello Stato, comunicando ai lettori e agli utenti del blog, presso quale canale librario, e presso quale sito internet, sarà possibile acquistare il romanzo, e a quale prezzo. Spero che questi sei post, relativi ai primi sei capitoli del libro in questione, siano stati di vostro gradimento. 
Cordiali saluti, Francesco Toscano, l'autore del libro e  il webmaster del sito http://www.siciliaterradelsole.com/


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martedì 20 maggio 2014

"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Cinque.


 I ru viddrani
di Francesco Toscano

Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.

Cinque.

 “Ù pastranu”, dopo aver fatto una ricca colazione, con un uovo e pancetta, succo di frutta d’ananas, caffè nero bollente, e aver fumato una delle prime sigarette della giornata, prelevò con cura il quotidiano che si trovava poggiato sulla credenza della stanza da pranzo, cominciandolo a sfogliare e a leggerlo con attenzione. A Don Ciccio, in particolare, interessavano tutti i fatti di cronaca che avessero avuto attinenza con le vicende “ra sò famigghia”.
Nell’articolo di spalla della prima pagina, tale Nuccio De Giorgis, un cronista locale, così scriveva: «Palermo, 10 marzo 2014. È stata accoltellata ieri pomeriggio in pieno centro a Palermo, in via Dante, a due passi dal Teatro Politeama, Ingrid Doroteea Romanescu, badante romena di trentacinque anni. A ucciderla sarebbe stato, nel corso dell’ennesima lite, il marito - anche lui cittadino romeno - con cinque coltellate all’addome. I due non vivevano più sotto lo stesso tetto da un po’ di tempo, ma l’uomo, quarantuno anni, non aveva mai accettato di essere stato lasciato e non era la prima volta che pedinava e malmenava la moglie. Nonostante fossero già state avviate le pratiche per la separazione, il marito continuava a perseguitare la 35enne intimandole di lasciare il lavoro. Fino al triste epilogo di ieri. Secondo quanto raccontato da alcuni testimoni oculari l’omicida, dopo aver estratto il coltello da una tasca, ha colpito la donna e l’ha lasciata in una pozza di sangue prima di scappare a piedi. Una telefonata anonima ha poi avvisato il 113. Quando è arrivata l’ambulanza, Ingrid Doroteea Romanescu era ancora viva, ma è deceduta pochi minuti dopo il suo arrivo in ospedale. Il marito, ricercato con l’accusa di omicidio volontario, è ancora irreperibile.»
«Fofò? Fofò? Fofoooò!» Gridò Don Ciccio nell’intento di far accorrere con urgenza il suo fidato servitore all’interno della stanza in cui si trovava.
«Chi succiessi? Chi succiessi Don Ciccio?» Fofò arrivò di corsa. Dopo essersi sincerato che nulla di grave fosse accaduto al suo amato “padrino”, che spesso avrebbe voluto emulare, non avendone tuttavia il coraggio, gli chiese: «M’avi a cumannari?»
Don Ciccio rispose:
«Da  buttana ri Ingrid, ti ricuordi chidda ca ngannò a Mimì Sinatra, no 2006, arrubannugli tuttu l’ùoru e l’argìentu, muriu. Ricuordati, Fofò, ca chista è a fini chi fannu i buttani e i trarituri. Nun tu scurdari!»
Fofò, a quell’esternazione di Don Ciccio, chinò il capo in segno di rispetto e, dopo essersi avvicinato al suo padrone, gli baciò il dorso della mano destra, in segno di devozione.
Dopo aver rassicurato Don Ciccio che mai e poi mai lo avrebbe potuto tradire, piuttosto Dio lo avrebbe dovuto fare morire schiacciato da un Tir in corsa, Fofò chiese licenza di potersi allontanare per riprendere le sue faccende quotidiane, consistenti nel dar da mangiare ai cani da caccia che si rincorrevano guaendo per i viali della villa, strigliare e dar da mangiare al purosangue che si trovava nella stalla attigua alla cantina della villa e, infine, ma non meno importante, prendersi cura dell’orto di villa Vassallo.
Don Ciccio, dopo essersi sincerato che il suo devoto Fofò non lo avrebbe mai e poi mai tradito, gli disse che poteva andare; prima, però, gli ordinò di portargli le pillole della pressione che, oramai da circa cinque anni, era costretto a ingurgitare.
Ingrid Doroteea Romanescu, era nata a Born, in Romania, alla fine del 1979, da padre e madre contadini, scriveva Nuccio De Giorgis nell’articolo della terza pagina del quotidiano che Don Ciccio, con tanta bramosia, stava leggendo.
Seconda di cinque fratelli, continuava nel suo articolo il De Giorgis, alla fine del 2001 era riuscita a entrare in Italia con un visto turistico, rimanendovi a vivere da clandestina (la Romania, infatti, era entrata a far parte dell’U.E. l’1 gennaio 2007), e occupandosi negli ultimi anni della sua breve vita di assistere, in qualità di badante, alcuni anziani residenti nella provincia di Agrigento.
Di bella presenza, occhi neri, capelli corvini, fisico atletico, e un paio di gambe che quando gli uomini le guardavano perdevano il fiato, Ingrid era ben presto entrata nelle grazie di molti compaesani di Don Ciccio, riuscendo, il più delle volte subdolamente, con raggiri raffinatissimi, degni di una mente criminale brillante, a impossessarsi prima della loro morte di tutti i loro averi.
Così facendo, andando di casa in casa, come è solito fare un predatore famelico, dopo la morte dei vecchietti di cui si era presa cura, era riuscita a intrufolarsi nella vita di Domenico Sinatra.
Questa era stata la sua sventura che l’avrebbe, nel giro di pochi anni, portata alla morte.
Ingrid era riuscita, così facendo, a racimolare una buona somma di denaro, circa cinquantamila euro, che ben presto le sarebbero serviti per rientrare in patria e lì condurre una vita agiata, come una gran signora.
Signora, con la “S” maiuscola, Ingrid non lo era mai stata.
Giunta in Italia, infatti, non riuscendo da subito a trovare lavoro e dovendo mangiare per sopravvivere, si era rivolta ad alcuni suoi connazionali che, approfittando di lei e del suo stato di bisogno, sotto minaccia di rispedirla a raccogliere il letame degli animali della fattoria rumena da cui proveniva, dopo averla stuprata, l’avevano costretta a prostituirsi.
Ridotta ben presto in schiavitù, così come altre donnine sue connazionali, la poveretta, dopo qualche anno che era stata costretta a vendere il suo corpo per denaro, era riuscita a estinguere il suo “debito da clandestina”, togliendosi definitivamente dalla vita di strada e dal malaffare.
Dedicatasi agli anziani in qualità di badante, un errore Ingrid lo aveva fatto durante la sua permanenza in Sicilia: l’essersi scontrata, e schierata apertamente, contro Don Ciccio “ù pastranu” e contro i suoi accoliti.
Alla fine del mese di gennaio del 2006, infatti, Fofò Macchiarella, uomo di fiducia di Don Ciccio, era riuscito a mettersi sulle sue tracce e su quelle del suo amante, Paul Dominescu, nell’intento di venire in possesso di tutto l’oro e l’argento che i due giovani amanti avevano asportato a don Mimì Sinatra.
Nei primi giorni del mese di febbraio del 2006, nel quartiere San Siro di Milano, dopo che Fofò e Marco Guarraggiano, inteso “ù bombetta”, per via di alcuni fetidi rumori che fuoruscivano dal suo deretano, erano riusciti a rintracciare Ingrid e il suo uomo, avevano richiesto loro di riconsegnare tutto l’oro e l’argento che avevano asportato al Mimì durante la loro permanenza in Sicilia; Ingrid, nell’occorso, aveva avuto il barbaro coraggio di rispondere a Fofò: «..digli al tuo padrone di farsi fottere!»
Un tale affronto non poteva essere tollerato da Don Ciccio.
Fofò e Marco dissero ai due giovani amanti che avrebbero riferito dell’accaduto a Don Ciccio e che sarebbe stato meglio per loro che fossero spariti dalla faccia della Terra. Riscesi d’urgenza in Sicilia, a bordo di un aereo di linea Alitalia, il Fofò e Marco raccontarono dell’accaduto a Don Ciccio; questi, appreso i fatti, aveva ordinato loro: «Pigghiati dâ buttana e tagghiatici a tiesta!»
Non passò molto tempo prima che quel desiderio di Don Ciccio venisse esaudito.
La punizione di Ingrid, a dir di Don Ciccio, non poteva che essere la pena capitale; non era possibile, infatti, che una donna, e soprattutto una puttana, sfidasse un capo mafia dal pedigree di Don Ciccio in tal guisa.
Ma commettere un omicidio non sarebbe stato così facile; di ciò Don Ciccio e i suoi uomini erano pienamente convinti.
La Commissione Provinciale, formata dai capi dei mandamenti mafiosi dell’agrigentino, non avrebbe autorizzato un omicidio di una donna, benché fosse una puttana che si era permessa il lusso di offendere l’onore “ru pastranu”.
«Don Ciccio, vuatri u sapiti quantu vi stimu, ma n’omicidiu, ri na fimmina, puoi, unn’è cuosa ri pocu cuntu…» Disse Fofò a Don Ciccio, che in un momento di maggior lucidità mentale annuì a quella osservazione proferita dal suo fedele servitore.
«N’aviti a rari nu puocu ri tiempu, ca sta facenna a sistimamu nuautri, in maniera pulita, pulita, senza fari troppu scrusciu!» Continuò Fofò, sempre più amareggiato di doversi schierare apertamente contro il volere dell’anziano capo mafia.
Don Ciccio rifletté qualche minuto e, alle contestazioni mossegli dal Fofò, disse: «Fofò, pigghiati tuttu u tiempu ca ti sierbi, m’ammazza ru viermi ri Ingrid.. a costu ri finiri ‘npriciuni. L’ammazzari!»

Fofò non replicò; se ne rimase in silenzio. Baciò le mani di Don Ciccio e, così com’era entrato in quella stanza, se ne andò, senza mai voltarsi.

 Francesco Toscano
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domenica 18 maggio 2014

"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Quarto.

18 maggio 2014.


I ru viddrani

di Francesco Toscano

Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.

Quattro.


U zu Peppino e za Pina, dopo aver chiuso la porta di casa e lasciato per strada Domenico Sinatra, immerso nei suoi pensieri e nei suoi farraginosi ragionamenti su come dovesse fare per rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, quasi tre chili d’argento e ottocento grammi d’oro, si accomodarono in soggiorno, locale attiguo alla cucina, e all’unica stanza da letto della loro modesta residenza.
Cominciarono, solo allora, a dissertare sul perché quell’uomo, che sovente trascorreva la sua quotidianità in solitudine, lontano anni luci dalla vita di paese e dagli altri “viddrani”, avesse deciso di raccontare loro la sua triste vicenda umana.
Fortunatamente per loro, la sventura o la iattura che Mimì si portava al seguito, non aveva intaccato la loro serenità familiare. Pina chiese a suo marito come avessero potuto aiutare Mimì a riprendersi tutto quell’oro e tutto quell’argento, asportatogli subdolamente dalla sua badante rumena che, ricordavano, Mimì amava in maniera viscerale, anche se quell’amore era più il frutto di un sentimento paterno che la sommatoria di desideri lascivi.
Si rammentarono, nel frattempo, di come Mimì fosse cambiato dopo la morte di sua moglie; i due si abbracciarono teneramente, ringraziando Iddio di averli lasciati vivere insieme per tutti quegli anni.
U zu Peppino e a za Pina si erano sposati il 18 maggio dell’anno 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale. Lui, soldato di fanteria di stanza a Messina, aveva richiesto e ottenuto un giorno di permesso dal suo Comando per contrarre matrimonio con la sua amata Pina, a suo dire bella come una rosa rossa, come il sole a mezzogiorno, dopo circa sette anni di fidanzamento, cinque dei quali vissuti lontano da lei per via della guerra.
Lei aveva atteso il suo ritorno dal fronte con tanta pazienza e amore; negli anni Trenta del Novecento, durante il ventennio fascista, si erano giurati amore eterno.
Alto circa un metro e sessantacinque, corporatura esile, occhi neri, testa rasata, per via di quella peluria biancastra che gli era rimasta nel corso degli anni, che quando cresceva lo faceva apparire orribile agli occhi della sua donna, pelle bruciata dal sole, e con qualche incisivo rimastogli ancora in bocca, Peppino aveva da poco festeggiato i suoi settantacinque anni d’età.
Per l’occasione, lui e sua moglie, avevano deciso di recarsi in Francia, ed esattamente a Parigi, luogo in cui, per tutta una vita, avevano desiderato andare.
Quella era stata l’unica volta in cui Pina e Peppino non avevano pensato ai loro averi, ai risparmi di una vita fatta di stenti e di sacrifici continui, ritenendo che fosse più che giusto uscire dal comune di nascita prima di passare a miglior vita.
Si recarono così in un paese estero di cui avevano sempre sentito parlare tanto bene, in modo tale da potersi recare in quella città incantata, romantica, qual è Parigi, da loro tanto agognata; ovvero la capitale di Stato fra i vicoli e i sobborghi della quale l’amore trionfa su tutto e tutti. Pina aveva festeggiato il suo settantatreesimo compleanno durante il mese di marzo di quell’anno.
La sua vita, interamente dedicata alla campagna, sovente a raccogliere ortaggi e agrumi, le aveva ben presto reso la schiena curva, facendola apparire agli occhi degli altri ancora più vecchia rispetto alla sua reale età anagrafica.
In gioventù a za Pina era stata una bella ragazza, almeno così dicevano gli altri suoi coetanei.

Occhi celesti, carnagione chiara, corporatura normale, un seno prosperoso, gambe dritte e forti, e un corpo sinuoso, avevano fatto girare la testa a parecchi uomini; lei, tuttavia, aveva scelto Peppino, non perché fosse più bello degli altri, ma perché era stato sin da subito l’uomo che la sapeva capire all’istante, a un batter di ciglia. Ora, a quell’età, la bellezza di un tempo era scomparsa. Nessuno, a parte coloro i quali l’avevano conosciuta da giovane, avrebbe scommesso una lira sulla sua beltà giovanile.
Mentre i due anziani coniugi erano seduti sul divano del soggiorno, intenti a sentire alla radio le ultime notizie di cronaca, Pina disse al marito di chiamare Don Ciccio “ù pastranu”, loro compare d’anelli, per raccomandargli di ricevere quanto prima Don Mimì, di ascoltare le sue suppliche e di esaudire al più presto le sue preghiere, a costo di andare a cercare quella puttana di Ingrid e quello stronzo del suo uomo, sin sulla Luna.
Peppino non se lo fece dire due volte. Prese il telefono e cominciò a comporre il numero della villa di “Punta Aguglia”.
La voce di un uomo, rauca e gutturale, rispose al terzo squillo. Era quella di Fofò, il servo fedele di Don Ciccio.

Fofò disse allo zio Peppino che Don Ciccio in quel momento non era in casa, ma che se avesse voluto poteva riferire direttamente a lui. Peppino gli raccontò quello che era accaduto a Mimì, pregandolo di intercedere presso Don Ciccio affinché la vicenda venisse risolta tempestivamente. Fofò gli disse di non preoccuparsi e di considerare la cosa come già fatta, specificandogli di considerare come già restituito alla persona offesa tutto l’oro e l’argento asportatogli da quella peripatetica di Ingrid. Pur tuttavia, sarebbero passati alcuni anni da quel giorno prima che qualcuno gliel’avesse fatta pagare ad Ingrid, così rendendo giustizia a Don Mimì.

Francesco Toscano

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"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Terzo.

18 maggio 2014


 I ru viddrani

di Francesco Toscano


Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.


Tre.


Francesco Vassallo, di anni sessantacinque, corporatura robusta, poco più alto del muro di cinta che delimitava il suo feudo in località “Punta Aguglia”, che era solo un metro e sessanta, era divenuto capo famiglia a soli quarant’anni e solo dopo aver collezionato una sfilza di precedenti penali per delitti contro il patrimonio e la persona che avevano tanto fatto preoccupare il maresciallo Comandante della Stazione Carabinieri del luogo.
Il maresciallo, pertanto, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Novecento, come “estrema ratio”, al solo fine di frenare la capacità delinquenziale del Vassallo, era stato costretto a segnalarlo alla Questura di Agrigento affinché adottasse tutte quelle misure di competenza che potessero sortire l’effetto sperato e in specie limitarne la libertà d’azione.
Nel 1993, Francesco Vassallo, dopo che qualche anno prima era stato avvisato oralmente dal Questore della Provincia di Agrigento a non commettere più delitti, venne sottoposto alla Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza di anni tre, con obbligo di dimora nel comune di residenza.
Il Vassallo era anche conosciuto nell’ambiente criminale come “ù pastranu” in quanto avvezzo ad indossare “nu cappuottu luongu ca' arriva 'nde pieri come chiddu ca usavunu l'antichi quannu si truavunu supra u scieccu o sopra lu mulu.
Don Ciccio, pertanto, sulla scorta della misura di prevenzione erogata a suo carico, se ne stava rintanato tutto il giorno, anche al fine di poter agire liberamente e continuare a dettare legge, lontano da occhi ed orecchie indiscrete, all’interno del suo feudo, uno sterminato appezzamento di terreno, di quasi trenta tummini, ossia duecentoquindici tumuli circa, che per intenderci sono circa duecentotrentaquattromila e settecento metri quadrati, all’interno del quale, alla fine dell’Ottocento, il suo bisnonno aveva fatto edificare una villa sfarzosa con tutti i confort di quel tempo.
Lungo il muro di cinta che delimitava il feudo di “Punta Aguglia”, alcuni “campieri”, che portavano al seguito la lupara, fungevano da sentinelle.
Sembrava che fosse una fortezza inespugnabile la residenza di Don Ciccio “ù pastranu”; tale fu l’impressione che ebbe Mimì allorquando si accinse ad entrare all’interno della suddetta proprietà. Mimì venne allora bloccato da due campieri che gli chiesero chi fosse, che cosa cercasse lì, e se portasse al seguito armi o oggetti atti ad offendere, perquisendolo sommariamente, tanto che, ad un tratto, a Mimì gli si era chiusa la bocca dello stomaco per lo spavento.
«Sabbenerica!» Disse Mimì ai presenti.
«Sabbenerica a vossia!» Risposero i due campieri.
«A cu circati?
«A Don Ciccio. C’avissi a parrari, si mi po’ arriciviri…. E’ possibili?» Concluse Mimì.
«Nca ciertu! Nu minutu cuntatu, u tièmpu ca jamu e turnamu. Assittativi ca, ntâ stu pitruni. Ora turnamu.»
Così dicendo i due uomini armati si allontanarono addentrandosi in una fitta boscaglia, lasciando il Mimì da solo intento a ragionare su quello che avrebbe dovuto dire a Don Ciccio, di come si sarebbe dovuto comportare, ed in particolare se gli avesse dovuto fare l’inchino, il baciamani..
La sua mente era confusa. Sudava freddo. Gli faceva male lo stomaco. Le gambe avevano cominciato a tremargli.

Trascorsero più di due ore da quando Mimì era giunto all’interno del feudo, ma nessuno gli aveva fatto sapere qualcosa. Dei due campieri, e soprattutto di Don Ciccio, nessuna traccia.

Aspettò, aspettò a lungo. Infine, quando erano da poco trascorse quattro ore dal momento in cui si era seduto su quel masso, che gli aveva ridotto il sedere in un colabrodo, vide in lontananza due uomini che si avvicinavano al luogo in cui egli si trovava, in sella a due giumente.

Francesco Toscano

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venerdì 16 maggio 2014

"I ru viddrani" di Francesco Toscano. Capitolo Due.

Monreale (Pa), lì 16 maggio 2014.

 I ru viddrani

di Francesco Toscano


Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.



Due.


Che Domenico Sinatra, per gli amici Mimì, fosse uno da tenere alla larga, Peppino e Pina lo sapevano fin troppo bene.
Non foss’altro che lo sciagurato, da quasi vent’anni, e dopo la morte della moglie d’infarto, era additato dagli altri “viddrani”, come un ambasciatore di sventura.
Era stato un bell’uomo, Mimì, e le donne avevano fatto a botte fra loro per maritarselo.
Tanta grazia, Sant’Antonio, gli aveva ben presto fulminato le ultime sinapsi rimastegli nel cervello; la morte della moglie, poi, era stata per lui un colpo di grazia.
Da allora a oggi il mondo per lui era solo un simposio di disgrazie, cui bisognava calare la testa così come il bove fa sotto il suo giogo.
Gli occhi azzurro cielo, le ottime proporzioni facciali fra il naso, la bocca, gli zigomi, gli occhi, e l’altezza corporea superiore alla media, gli avevano permesso di vincere, nei primi anni Cinquanta del Novecento, un concorso di bellezza che, ricordava Mimì, si era svolto “m’Paliermu”, la città in cui conobbe la sua defunta moglie.
Quando Peppino aprì la porta a Mimì per consentirgli di entrare in casa, dicendogli di accomodarsi, facendogli segno con ampi gesti, così lasciandogli malauguratamente varcare l’uscio della porta d’ingresso della sua abitazione, anziché inventarsi una scusa e cacciarlo via al più presto da quel focolare domestico, com’erano soliti fare gli altri suoi compaesani, gli si erano “aggruvigghiati i vuredda ‘ntò stuomaco.”
«Chi mali ficimu io e me mugghieri?»

Pensò il povero Peppino, incredulo che tanta sventura potesse succedere proprio a loro due, umili servi di Dio, che non si curavano di nessuno, non spettegolavano nessuno, non s’invischiavano in fatti che non li riguardassero.
Facendo questa considerazione, Peppino voltò lo sguardo verso sua moglie; colse allora nello sguardo di lei un sentimento di sgomento, terrore, panico.
Le loro menti, in un’inspiegabile sintonia telepatica, avevano pensato: «E siddu fussi vieru chiddu ca rici a genti?»
«Si stu Mimì ca s’apprisintò ravanzi a nuostra faccia fussi viramenti n’gradu r’attirarisi tutti i negatività ru munnu ca u circunna?»
Loro due erano superiori a queste superstizioni. Lasciarono, pertanto, che Mimì proferisse parola e raccontasse loro quello che era accaduto e che ciascun atomo del suo corpo lasciava trapelare a miglia di distanza. Tanto, a quel punto, pensarono Pina e Peppino, il dado era tratto. Nessuno poteva allontanare dalla loro umile dimora il male che si era impossessato di Mimì.
«Parrati Mimì, chì succiessi?» Disse Peppino.
Qualche secondo di silenzio rese l’aria nella stanza quasi irrespirabile. A un tratto, quasi inaspettatamente, un velo era caduto sugli occhi di Peppino e di Pina. Che cosa, di così grave, era successo in paese che Mimì non riusciva a parlare, a raccontare loro?
«Chi fu Mimì? Parrati!» Disse Pina.
Mimì esordì dicendo: «Bah..bah..un vulissi…ma…»
«Ma chi cosa? Chi c’è, pi l’armuzza ri tutti i santi ru paradisu? Parrati!» Disse Pina.
Mimì raccontò loro che la sua badante, Ingrid, di nazionalità rumena, arrivata in Italia cinque anni addietro, e che da due si prendeva cura di lui e della sua casa, se ne era andata, lasciandolo “come un trunzu ri vruocculu..”, fuggendo con un suo connazionale e portandosi al seguito tutto l’oro e l’argento che Mimì era riuscito a stipare dentro il mobilio di casa sua.
Per Mimì era impossibile denunciarla, atteso che in questo caso si sarebbe buscato una bella denuncia da parte dei Carabinieri del luogo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, essendo che la Romania non era ancora uno stato membro dell’Unione Europea.
Peppino e Pina, educatamente, solo dopo aver tirato un sospiro di sollievo, e ringraziato tutti i Santi del Paradiso per la grazia ricevuta che la sventura non si fosse abbattuta sulla loro casa, ma sulla casa di altri, in questo caso del malcapitato Mimì, dopo aver rincuorato il Sinatra di non preoccuparsi e che tutto si sarebbe risolto per il verso giusto, lo salutarono dicendogli:
«Nun vi scantati Mimì! N’amicu, nu mienzu parienti, bravu assai, arriniscirà a farivi riaviri n’arrieri tuttu l’uoru e l’argentu.»
«Rurmiti tranquillu, Mimì, ca rumani matina i cosi s’aggiustanu!» 
La soluzione al problema, proposta da Pina e Peppino a Don Mimì, aveva lasciato quest’ultimo quasi basito.

Egli, infatti, a loro dire, si sarebbe potuto rivolgere ad un esponente di spicco della mafia locale; in particolare, avrebbe potuto chiedere udienza a Don Ciccio “ù pastranu”, capo famiglia della locale consorteria mafiosa, che avrebbe, sempre a loro dire, preso a cuore la sua vicenda facendogli riavere il maltolto.

Francesco Toscano



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"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Uno.

Monreale (Pa), lì 16 maggio 2014.


I ru viddrani

di Francesco Toscano


Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.


Uno.


Il sole a quell’ora del giorno si stagliava alto nel cielo terso del paese natio della zia Pina Modica e dello zio Peppino Fiorenza, oramai avanti negli anni, splendendo fulgidamente come non mai.
La nostra stella era giunta, avevano notato i due anziani consorti mentre erano seduti davanti all’uscio della porta della loro modesta abitazione, intenti a contare quanti cristiani passassero di lì, quasi allo Zenit.
Si faceva fatica a camminare per le vie del centro abitato, tanto che era necessario proteggersi gli occhi; gli abitanti del posto erano avvezzi a proteggersi gli occhi, accecati dai raggi del sole di mezzogiorno, con il dorso della mano, possibilmente la mancina, in modo tale da avere sempre la mano destra libera per prendere qualcosa o per afferrare qualcuno. Questa era la loro filosofia di vita: stai sempre in guardia se non vuoi soccombere.
Nessun “viddrano”, così com’erano soliti chiamare i loro mesti compaesani Pina e Peppino, si aggirava in quel momento per le vie del piccolo centro agricolo dell’agrigentino, un pugno di case in un territorio brullo, forse per paura di procurarsi delle ustioni, preferendo oziare all’ombra di qualche olmo ombroso o di qualche pensilina che sporgeva dai muri poco intonacati delle case che davano su Corso Italia o su altre vie.
L’aria era afosa, come spesso accade in Sicilia nei mesi estivi, e si faceva fatica ad alzare le gambe da terra: si boccheggiava.
Una vita di stenti quella vissuta dai Fiorenza; entrambi agricoltori, da qualche anno pensionati, non avevano avuto figli, benché, se fosse stato per loro, avrebbero voluto adottare tutti “gli addrevi ru paisi….”.
Il buon Dio, sostenevano i due anziani coniugi, aveva deciso di non dover dare a lei la gioia della maternità e a lui l’onore e l’onere di crescere un figlio cui, un giorno, avrebbe lasciato quanto nel corso dei suoi settantacinque anni era riuscito a racimolare.
Per Peppino era tanta roba: una casa; tre appezzamenti di terreno, uno dei quali dato in gabella, e da cui ricavava la metà del raccolto durante l’anno solare; una somma di denaro superiore ai trentamila euro, depositata in un conto corrente bancario, acceso pochi anni prima.
I due coniugi non erano avvezzi a sperperare i loro averi, preferendo spendere il necessario per la loro sopravvivenza. Mai un acquisto fuori luogo o avventato, mai una cena con amici, mai niente che potesse essere ritenuto superfluo. I due vecchi compravano solo quello che fosse veramente necessario per il loro fabbisogno giornaliero.
Parlavano poco fra loro Pina e Peppino, prediligendo assaporare le parole prima che fossero proferite dalla loro bocca, ponderando, di volta in volta, le frasi che il loro cervello ideava, componeva, e infine consegnava alla lingua e alle corde vocali per essere vocalizzate.
I ru viddrani” si conoscevano così bene che ogni parola era superflua.
La loro vita quotidiana si svolgeva con tempi cadenzati, quasi le ore fossero regolate da un orologio svizzero di ottima manifattura, che un buontempone di orologiaio s’era impegnato a realizzare per loro. Ogni ingranaggio di quel meccanismo multiforme, che regolava il loro tempo biologico, scorreva sereno e senza alcun intoppo.
Oramai gli anni bui, quelli fatti di stenti e di sofferenze, erano passati e i due anziani si auspicavano che non ne dovessero vivere più.

Lo avevano avuto un figlio da crescere i due consorti, pur tuttavia, ma non era stato il loro bambino, solo il figlio della sorella di lui: il più grande dei suoi tre nipoti.
Questo fanciullo, oggi cinquantenne, cui suo padre aveva imposto il nome di battesimo Carmelo, i due anziani coniugi lo avevano cresciuto e gli avevano voluto bene davvero tanto, così dedicandogli gran parte dei loro primi anni di matrimonio e dei loro averi.
Lo avevano allevato come e meglio di un figlio, facendolo studiare e viziandolo senza alcun riserbo. Carmelo, per tutta risposta, dopo la laurea, si era dimenticato dei suoi due benefattori, prediligendo vantarsi con gli amici e con i colleghi di lavoro che erano stati i suoi genitori, e non gli zii, a dargli gli strumenti necessari per imporsi nella società del suo tempo, divenendo, a soli trentadue anni, un affermato avvocato, e riuscendo, con i soldi che gli zii “ru paisi ru suli”gli facevano recapitare con vaglia mensile, ad avviare uno studio legale in un piccolo centro limitrofo a quello in cui la zia Pina e lo zio Peppino vivevano.
«Talè a mugghieri, pigghiami a sarsa ca c’è ddà! Supra u stipettu..» disse lo zio Peppino alla sua amata consorte, di lui più giovane di due anni.
«Ma cà a fari?» disse la zia Pina, sorpresa per quella domanda formulatale da suo marito.
«Vogghiù ‘nca sta jurnata m’ha cuociri a pasta cui maccheroni, salsa fresca e basilicò.»
«Comu scassi i cabbasisi tu, nuddu o munnu!» concluse Pina.
La salsa era davvero fresca.
L’avevano fatta loro due, con le loro mani, così com’erano soliti fare in paese nei mesi estivi tutti i loro compaesani, allorquando in pentoloni d’acqua calda si lasciano bollire chili di pomodori rossi, da poco raccolti, maturi e profumati, i quali poi saranno passati, versati in bottiglie lavate con cura che saranno a suo tempo tappate, e infine messe in una bacinella di plastica, a testa in giù, su cui una mano sicura farà calare un canovaccio.
Il calore prodotto dal canovaccio poggiato sulla bacinella di plastica, nonché il tempo di posa delle bottiglie in vetro al suo interno, avrebbe consentito alla salsa liquida contenuta all’interno delle bottiglie di pastorizzarsi, divenendo dopo qualche mese di conservazione, all’ombra della dispensa ricavata ad hoc per l’occasione, un prodotto gastronomico per palati sopraffini.
L’orologio a pendolo affisso alla parete laterale destra della cucina suonò mezzogiorno.
Svegli dalle cinque del mattino, come ogni giorno d’altronde, i due anziani si erano lasciati cullare dalla brezza mattutina, che entrava dall’anta di destra della finestra della stanza da letto sovente semichiusa, sino alle ore sei. “Ammuttami tu ‘nca t’ammuttu iu..” alla fine si erano alzati, pronti ad affrontare le insidie del nuovo giorno.
Lui si era lavato, rasato e profumato; era poi uscito dalla sua abitazione; aveva raggiunto gli amici alla “casa del lavoratore”, restando a scambiare due chiacchiere con alcuni di loro, che come lui avevano superato la settantina d’anni, sino alle dieci e mezzo.
Peppino, poi, prima di rientrare a casa, aveva comprato il pane dal fornaio di fiducia, tale Don Giovanni u luongo, il cui panificio si trovava all’angolo fra il Corso Italia e la via Manzoni, e due fettine di carne dall’unico macellaio di cui si fidava, tale Don Gino u curtu, che aveva bottega da circa venti anni in Corso Italia. Peppino aveva pensato di cucinare la carne, che aveva da poco acquistato, in padella, così com’era solito fare, ma solo dopo averla impanata e bagnata nell’albume e nel tuorlo di un uovo fresco che una delle due galline ovaiole che possedeva, che erano rinchiuse all’interno di un nido collettivo posto sul retro di casa sua, aveva fatto nelle prime ore del giorno.
Pina, quel giorno, dopo la pulizia personale mattutina, si era dedicata ad annaffiare le piante, arse dall’aria resa infuocata dal sole rovente, ed era rimasta in casa a sbrigare le faccende domestiche in attesa che rientrasse il suo amato Peppino.
Peppino era da poco rientrato a casa, quando qualcuno bussò alla porta d’ingresso della loro umile dimora.
«Pè! Pè! Va rapi a puorta e viri cu è!» disse Peppino alla moglie.
«Ma che è stamatina? Peppì cu può essiri? Viri ‘nca è u postino. Sicuramenti nnì puirtò o a bulletta ra luci o chidda ri l’acqua.»
Peppino, da galantuomo qual era, si decise ad andare ad aprire lui la porta, lasciando che sua moglie continuasse a disbrigare le faccende domestiche; aprì l’anta di destra della porta d’ingresso e, sull’uscio della porta di casa, scorse nella penombra la sagoma di cumpari Mimì, suo coetaneo.
«Ma quali postino e postino, è Mimì! Trasiti, trasiti Don Mimì… chi ci faciti ca?»
«Pozzu trasiri? Non è ‘nca risturbu? Stati manciannu?» Disse Don Mimì “’mparpagliatu”, e quasi spaventato di quello che gli potesse succedere, giacché consapevole che la sua presenza lì, e soprattutto quello che avrebbe detto loro da lì a pochi minuti, erano forieri di sventura che si stava per abbattere come una palla di cannone su quell’umile casa.

Francesco Toscano


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La storia del blog nasce nel 1997 in America, quando lo statunitense Dave Winter sviluppò un software che permise la prima pubblicazione di contenuti sul web. Nello stesso anno fu coniata la parola weblog, quando un appassionato di caccia statunitense decise di parlare delle proprie passioni con una pagina personale su Internet. Il blog può essere quindi considerato come una sorta di diario personale virtuale nel quale parlare delle proprie passioni attraverso immagini, video e contenuti testuali. In Italia, il successo dei blog arrivò nei primi anni 2000 con l’apertura di diversi servizi dedicati: tra i più famosi vi sono Blogger, AlterVista, WordPress, ma anche il famosissimo MySpace e Windows Live Space. Con l’avvento dei social network, tra il 2009 e il 2010, moltissimi portali dedicati al blogging chiusero. Ad oggi rimangono ancora attivi gli storici AlterVista, Blogger, WordPress e MySpace: sono tuttora i più utilizzati per la creazione di un blog e gli strumenti offerti sono alla portata di tutti. Questo blog, invece, nasce nel 2007; è un blog indipendente che viene aggiornato senza alcuna periodicità dal suo autore, Francesco Toscano. Il blog si prefigge di dare una informazione chiara e puntuale sui taluni fatti occorsi in Sicilia e, in particolare, nel territorio dei comuni in essa presenti. Chiunque può partecipare e arricchire i contenuti pubblicati nel blog: è opportuno, pur tuttavia, che chi lo desideri inoltri i propri comunicati all'indirizzo di posta elettronica in uso al webmaster che, ad ogni buon fine, è evidenziata in fondo alla pagina, così da poter arricchire la rubrica "Le vostre lettere", nata proprio con questo intento. Consapevole che la crescita di un blog è direttamente proporzionale al numero di post scritti ogni giorno, che è in sintesi il compendio dell'attività di ricerca e studio posta in essere dal suo creatore attraverso la consultazione di testi e documenti non solo reperibili in rete, ma prevalentemente presso le più vicine biblioteche di residenza, mi congedo da voi augurandovi una buona giornata. Cordialmente vostro, Francesco Toscano.