martedì 20 maggio 2014
"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Cinque.
Cinque.
domenica 18 maggio 2014
"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Quarto.
I ru viddrani
Quattro.
U zu Peppino e za
Pina, dopo aver chiuso la porta di casa e lasciato per strada Domenico Sinatra,
immerso nei suoi pensieri e nei suoi farraginosi ragionamenti su come dovesse
fare per rientrare in possesso del suo piccolo tesoro, quasi tre chili
d’argento e ottocento grammi d’oro, si accomodarono in soggiorno, locale
attiguo alla cucina, e all’unica stanza da letto della loro modesta residenza.
Cominciarono, solo
allora, a dissertare sul perché quell’uomo, che sovente trascorreva la sua
quotidianità in solitudine, lontano anni luci dalla vita di paese e dagli altri
“viddrani”, avesse deciso di raccontare loro la sua triste vicenda umana.
Fortunatamente per
loro, la sventura o la iattura che Mimì si portava al seguito, non aveva
intaccato la loro serenità familiare. Pina chiese a suo marito come avessero
potuto aiutare Mimì a riprendersi tutto quell’oro e tutto quell’argento,
asportatogli subdolamente dalla sua badante rumena che, ricordavano, Mimì amava
in maniera viscerale, anche se quell’amore era più il frutto di un sentimento
paterno che la sommatoria di desideri lascivi.
Si rammentarono, nel
frattempo, di come Mimì fosse cambiato dopo la morte di sua moglie; i due si
abbracciarono teneramente, ringraziando Iddio di averli lasciati vivere insieme
per tutti quegli anni.
U zu Peppino e a za
Pina si erano sposati il 18 maggio dell’anno 1942, durante la Seconda Guerra
Mondiale. Lui, soldato di fanteria di stanza a Messina, aveva richiesto e
ottenuto un giorno di permesso dal suo Comando per contrarre matrimonio con la
sua amata Pina, a suo dire bella come una rosa rossa, come il sole a
mezzogiorno, dopo circa sette anni di fidanzamento, cinque dei quali vissuti
lontano da lei per via della guerra.
Lei aveva atteso il
suo ritorno dal fronte con tanta pazienza e amore; negli anni Trenta del
Novecento, durante il ventennio fascista, si erano giurati amore eterno.
Alto circa un metro e
sessantacinque, corporatura esile, occhi neri, testa rasata, per via di quella
peluria biancastra che gli era rimasta nel corso degli anni, che quando
cresceva lo faceva apparire orribile agli occhi della sua donna, pelle bruciata
dal sole, e con qualche incisivo rimastogli ancora in bocca, Peppino aveva da
poco festeggiato i suoi settantacinque anni d’età.
Per l’occasione, lui
e sua moglie, avevano deciso di recarsi in Francia, ed esattamente a Parigi,
luogo in cui, per tutta una vita, avevano desiderato andare.
Quella era stata
l’unica volta in cui Pina e Peppino non avevano pensato ai loro averi, ai
risparmi di una vita fatta di stenti e di sacrifici continui, ritenendo che
fosse più che giusto uscire dal comune di nascita prima di passare a miglior
vita.
Si recarono così in
un paese estero di cui avevano sempre sentito parlare tanto bene, in modo tale
da potersi recare in quella città incantata, romantica, qual è Parigi, da loro
tanto agognata; ovvero la capitale di Stato fra i vicoli e i sobborghi della
quale l’amore trionfa su tutto e tutti. Pina aveva festeggiato il suo
settantatreesimo compleanno durante il mese di marzo di quell’anno.
La sua vita,
interamente dedicata alla campagna, sovente a raccogliere ortaggi e agrumi, le
aveva ben presto reso la schiena curva, facendola apparire agli occhi degli
altri ancora più vecchia rispetto alla sua reale età anagrafica.
In gioventù a za Pina
era stata una bella ragazza, almeno così dicevano gli altri suoi coetanei.
Occhi celesti,
carnagione chiara, corporatura normale, un seno prosperoso, gambe dritte e
forti, e un corpo sinuoso, avevano fatto girare la testa a parecchi uomini;
lei, tuttavia, aveva scelto Peppino, non perché fosse più bello degli altri, ma
perché era stato sin da subito l’uomo che la sapeva capire all’istante, a un
batter di ciglia. Ora, a quell’età, la bellezza di un tempo era scomparsa.
Nessuno, a parte coloro i quali l’avevano conosciuta da giovane, avrebbe
scommesso una lira sulla sua beltà giovanile.
Mentre i due anziani
coniugi erano seduti sul divano del soggiorno, intenti a sentire alla radio le
ultime notizie di cronaca, Pina disse al marito di chiamare Don Ciccio “ù
pastranu”, loro compare d’anelli, per raccomandargli di ricevere quanto prima
Don Mimì, di ascoltare le sue suppliche e di esaudire al più presto le sue
preghiere, a costo di andare a cercare quella puttana di Ingrid e quello
stronzo del suo uomo, sin sulla Luna.
Peppino non se lo
fece dire due volte. Prese il telefono e cominciò a comporre il numero della
villa di “Punta Aguglia”.
La voce di un uomo,
rauca e gutturale, rispose al terzo squillo. Era quella di Fofò, il servo
fedele di Don Ciccio.
Fofò disse allo zio
Peppino che Don Ciccio in quel momento non era in casa, ma che se avesse voluto
poteva riferire direttamente a lui. Peppino gli raccontò quello che era
accaduto a Mimì, pregandolo di intercedere presso Don Ciccio affinché la
vicenda venisse risolta tempestivamente. Fofò gli disse di non preoccuparsi e
di considerare la cosa come già fatta, specificandogli di considerare come già
restituito alla persona offesa tutto l’oro e l’argento asportatogli da quella
peripatetica di Ingrid. Pur tuttavia, sarebbero passati alcuni anni da quel
giorno prima che qualcuno gliel’avesse fatta pagare ad Ingrid, così rendendo
giustizia a Don Mimì.
Francesco Toscano
"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Terzo.
I ru viddrani
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, sono del tutto casuali.
Tre.
Francesco Vassallo,
di anni sessantacinque, corporatura robusta, poco più alto del muro di cinta
che delimitava il suo feudo in località “Punta
Aguglia”, che era solo un metro e sessanta, era divenuto capo famiglia a
soli quarant’anni e solo dopo aver collezionato una sfilza di precedenti penali
per delitti contro il patrimonio e la persona che avevano tanto fatto
preoccupare il maresciallo Comandante della Stazione Carabinieri del luogo.
Il maresciallo,
pertanto, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del
Novecento, come “estrema ratio”, al
solo fine di frenare la capacità delinquenziale del Vassallo, era stato
costretto a segnalarlo alla Questura di Agrigento affinché adottasse tutte
quelle misure di competenza che potessero sortire l’effetto sperato e in specie
limitarne la libertà d’azione.
Nel 1993, Francesco
Vassallo, dopo che qualche anno prima era stato avvisato oralmente dal Questore
della Provincia di Agrigento a non commettere più delitti, venne sottoposto
alla Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza di anni tre, con obbligo di
dimora nel comune di residenza.
Il Vassallo era anche
conosciuto nell’ambiente criminale come “ù
pastranu” in quanto avvezzo ad indossare “nu cappuottu luongu ca' arriva 'nde pieri come chiddu ca usavunu
l'antichi quannu si truavunu supra u scieccu o sopra lu mulu.”
Don Ciccio, pertanto,
sulla scorta della misura di prevenzione erogata a suo carico, se ne stava
rintanato tutto il giorno, anche al fine di poter agire liberamente e
continuare a dettare legge, lontano da occhi ed orecchie indiscrete,
all’interno del suo feudo, uno sterminato appezzamento di terreno, di quasi
trenta tummini, ossia duecentoquindici tumuli circa, che per intenderci sono
circa duecentotrentaquattromila e settecento metri quadrati, all’interno del
quale, alla fine dell’Ottocento, il suo bisnonno aveva fatto edificare una
villa sfarzosa con tutti i confort di quel tempo.
Lungo il muro di
cinta che delimitava il feudo di “Punta
Aguglia”, alcuni “campieri”, che
portavano al seguito la lupara, fungevano da sentinelle.
Sembrava che fosse
una fortezza inespugnabile la residenza di Don Ciccio “ù pastranu”; tale fu l’impressione che ebbe Mimì allorquando si
accinse ad entrare all’interno della suddetta proprietà. Mimì venne allora
bloccato da due campieri che gli chiesero chi fosse, che cosa cercasse lì, e se
portasse al seguito armi o oggetti atti ad offendere, perquisendolo
sommariamente, tanto che, ad un tratto, a Mimì gli si era chiusa la bocca dello
stomaco per lo spavento.
«Sabbenerica!» Disse Mimì ai presenti.
«Sabbenerica a vossia!» Risposero i due campieri.
«A cu circati?”
«A Don Ciccio. C’avissi a parrari, si mi po’ arriciviri…. E’ possibili?»
Concluse Mimì.
«Nca ciertu! Nu minutu cuntatu, u tièmpu ca jamu e turnamu. Assittativi
ca, ntâ stu pitruni. Ora turnamu.»
Così dicendo i due
uomini armati si allontanarono addentrandosi in una fitta boscaglia, lasciando
il Mimì da solo intento a ragionare su quello che avrebbe dovuto dire a Don
Ciccio, di come si sarebbe dovuto comportare, ed in particolare se gli avesse
dovuto fare l’inchino, il baciamani..
La sua mente era
confusa. Sudava freddo. Gli faceva male lo stomaco. Le gambe avevano cominciato
a tremargli.
Trascorsero più di
due ore da quando Mimì era giunto all’interno del feudo, ma nessuno gli aveva
fatto sapere qualcosa. Dei due campieri, e soprattutto di Don Ciccio, nessuna
traccia.
Aspettò, aspettò a
lungo. Infine, quando erano da poco trascorse quattro ore dal momento in cui si
era seduto su quel masso, che gli aveva ridotto il sedere in un colabrodo, vide
in lontananza due uomini che si avvicinavano al luogo in cui egli si trovava,
in sella a due giumente.
venerdì 16 maggio 2014
"I ru viddrani" di Francesco Toscano. Capitolo Due.
I ru viddrani
Due.
"I ru viddrani" di Francesco Toscano - Capitolo Uno.
I ru viddrani
Uno.
Il sole a quell’ora
del giorno si stagliava alto nel cielo terso del paese natio della zia Pina
Modica e dello zio
Peppino Fiorenza, oramai
avanti negli anni, splendendo fulgidamente come non mai.
La nostra stella era
giunta, avevano notato i due anziani consorti mentre erano seduti davanti
all’uscio della porta della loro modesta abitazione, intenti a contare quanti
cristiani passassero di lì, quasi allo Zenit.
Si faceva fatica a
camminare per le vie del centro abitato, tanto che era necessario proteggersi
gli occhi; gli abitanti del posto erano avvezzi a proteggersi gli occhi,
accecati dai raggi del sole di mezzogiorno, con il dorso della mano,
possibilmente la mancina, in modo tale da avere sempre la mano destra libera
per prendere qualcosa o per afferrare qualcuno. Questa era la loro filosofia di
vita: stai sempre in guardia se non vuoi soccombere.
Nessun “viddrano”, così com’erano soliti
chiamare i loro mesti compaesani Pina e Peppino, si aggirava in quel momento
per le vie del piccolo centro agricolo dell’agrigentino, un pugno di case in un
territorio brullo, forse per paura di procurarsi delle ustioni, preferendo
oziare all’ombra di qualche olmo ombroso o di qualche pensilina che sporgeva
dai muri poco intonacati delle case che davano su Corso Italia o su altre vie.
L’aria era afosa,
come spesso accade in Sicilia nei mesi estivi, e si faceva fatica ad alzare le
gambe da terra: si boccheggiava.
Una vita di stenti
quella vissuta dai Fiorenza; entrambi agricoltori, da qualche anno pensionati,
non avevano avuto figli, benché, se fosse stato per loro, avrebbero voluto
adottare tutti “gli addrevi ru paisi….”.
Il buon Dio,
sostenevano i due anziani coniugi, aveva deciso di non dover dare a lei la
gioia della maternità e a lui l’onore e l’onere di crescere un figlio cui, un
giorno, avrebbe lasciato quanto nel corso dei suoi settantacinque anni era
riuscito a racimolare.
Per Peppino era tanta
roba: una casa; tre appezzamenti di terreno, uno dei quali dato in gabella, e
da cui ricavava la metà del raccolto durante l’anno solare; una somma di denaro
superiore ai trentamila euro, depositata in un conto corrente bancario, acceso
pochi anni prima.
I due coniugi non
erano avvezzi a sperperare i loro averi, preferendo spendere il necessario per
la loro sopravvivenza. Mai un acquisto fuori luogo o avventato, mai una cena
con amici, mai niente che potesse essere ritenuto superfluo. I due vecchi
compravano solo quello che fosse veramente necessario per il loro fabbisogno
giornaliero.
Parlavano poco fra
loro Pina e Peppino, prediligendo assaporare le parole prima che fossero
proferite dalla loro bocca, ponderando, di volta in volta, le frasi che il loro
cervello ideava, componeva, e infine consegnava alla lingua e alle corde vocali
per essere vocalizzate.
“I ru viddrani” si conoscevano così bene che ogni parola era
superflua.
La loro vita
quotidiana si svolgeva con tempi cadenzati, quasi le ore fossero regolate da un
orologio svizzero di ottima manifattura, che un buontempone di orologiaio s’era
impegnato a realizzare per loro. Ogni ingranaggio di quel meccanismo
multiforme, che regolava il loro tempo biologico, scorreva sereno e senza alcun
intoppo.
Oramai gli anni bui,
quelli fatti di stenti e di sofferenze, erano passati e i due anziani si
auspicavano che non ne dovessero vivere più.
Lo avevano avuto un
figlio da crescere i due consorti, pur tuttavia, ma non era stato il loro
bambino, solo il figlio della sorella di lui: il più grande dei suoi tre
nipoti.
Questo fanciullo,
oggi cinquantenne, cui suo padre aveva imposto il nome di battesimo Carmelo, i
due anziani coniugi lo avevano cresciuto e gli avevano voluto bene davvero
tanto, così dedicandogli gran parte dei loro primi anni di matrimonio e dei
loro averi.
Lo avevano allevato
come e meglio di un figlio, facendolo studiare e viziandolo senza alcun
riserbo. Carmelo, per tutta risposta, dopo la laurea, si era dimenticato dei
suoi due benefattori, prediligendo vantarsi con gli amici e con i colleghi di
lavoro che erano stati i suoi genitori, e non gli zii, a dargli gli strumenti
necessari per imporsi nella società del suo tempo, divenendo, a soli trentadue
anni, un affermato avvocato, e riuscendo, con i soldi che gli zii “ru paisi ru suli”gli facevano recapitare
con vaglia mensile, ad avviare uno studio legale in un piccolo centro limitrofo
a quello in cui la zia Pina e lo zio Peppino vivevano.
«Talè a mugghieri, pigghiami a sarsa ca c’è ddà! Supra u stipettu..»
disse lo zio Peppino alla sua amata consorte, di lui più giovane di due anni.
«Ma cà a fari?» disse la zia Pina, sorpresa per quella domanda
formulatale da suo marito.
«Vogghiù ‘nca sta jurnata m’ha cuociri a pasta cui maccheroni, salsa
fresca e basilicò.»
«Comu scassi i cabbasisi tu, nuddu o munnu!» concluse Pina.
La salsa era davvero
fresca.
L’avevano fatta loro
due, con le loro mani, così com’erano soliti fare in paese nei mesi estivi
tutti i loro compaesani, allorquando in pentoloni d’acqua calda si lasciano
bollire chili di pomodori rossi, da poco raccolti, maturi e profumati, i quali
poi saranno passati, versati in bottiglie lavate con cura che saranno a suo
tempo tappate, e infine messe in una bacinella di plastica, a testa in giù, su
cui una mano sicura farà calare un canovaccio.
Il calore prodotto
dal canovaccio poggiato sulla bacinella di plastica, nonché il tempo di posa
delle bottiglie in vetro al suo interno, avrebbe consentito alla salsa liquida
contenuta all’interno delle bottiglie di pastorizzarsi, divenendo dopo qualche
mese di conservazione, all’ombra della dispensa ricavata ad hoc per
l’occasione, un prodotto gastronomico per palati sopraffini.
L’orologio a pendolo
affisso alla parete laterale destra della cucina suonò mezzogiorno.
Svegli dalle cinque
del mattino, come ogni giorno d’altronde, i due anziani si erano lasciati
cullare dalla brezza mattutina, che entrava dall’anta di destra della finestra
della stanza da letto sovente semichiusa, sino alle ore sei. “Ammuttami tu ‘nca t’ammuttu iu..” alla
fine si erano alzati, pronti ad affrontare le insidie del nuovo giorno.
Lui si era lavato,
rasato e profumato; era poi uscito dalla sua abitazione; aveva raggiunto gli
amici alla “casa del lavoratore”,
restando a scambiare due chiacchiere con alcuni di loro, che come lui avevano
superato la settantina d’anni, sino alle dieci e mezzo.
Peppino, poi, prima
di rientrare a casa, aveva comprato il pane dal fornaio di fiducia, tale Don
Giovanni u luongo, il cui panificio si trovava all’angolo fra il Corso Italia e
la via Manzoni, e due fettine di carne dall’unico macellaio di cui si fidava,
tale Don Gino u curtu, che aveva bottega da circa venti anni in Corso Italia.
Peppino aveva pensato di cucinare la carne, che aveva da poco acquistato, in
padella, così com’era solito fare, ma solo dopo averla impanata e bagnata
nell’albume e nel tuorlo di un uovo fresco che una delle due galline ovaiole
che possedeva, che erano rinchiuse all’interno di un nido collettivo posto sul
retro di casa sua, aveva fatto nelle prime ore del giorno.
Pina, quel giorno,
dopo la pulizia personale mattutina, si era dedicata ad annaffiare le piante,
arse dall’aria resa infuocata dal sole rovente, ed era rimasta in casa a
sbrigare le faccende domestiche in attesa che rientrasse il suo amato Peppino.
Peppino era da poco
rientrato a casa, quando qualcuno bussò alla porta d’ingresso della loro umile
dimora.
«Pè! Pè! Va rapi a puorta e viri cu è!» disse Peppino alla moglie.
«Ma che è stamatina? Peppì cu può essiri? Viri ‘nca è u postino.
Sicuramenti nnì puirtò o a bulletta ra luci o chidda ri l’acqua.»
Peppino, da
galantuomo qual era, si decise ad andare ad aprire lui la porta, lasciando che
sua moglie continuasse a disbrigare le faccende domestiche; aprì l’anta di
destra della porta d’ingresso e, sull’uscio della porta di casa, scorse nella
penombra la sagoma di cumpari Mimì, suo coetaneo.
«Ma quali postino e postino, è Mimì! Trasiti, trasiti Don Mimì… chi ci
faciti ca?»
«Pozzu trasiri? Non è ‘nca risturbu? Stati manciannu?» Disse Don
Mimì “’mparpagliatu”, e quasi
spaventato di quello che gli potesse succedere, giacché consapevole che la sua
presenza lì, e soprattutto quello che avrebbe detto loro da lì a pochi minuti,
erano forieri di sventura che si stava per abbattere come una palla di cannone
su quell’umile casa.
Francesco Toscano
Francesco Toscano
giovedì 15 maggio 2014
Recensione del libro "Condannato senza possibilità d'appello." di Francesco Toscano, edita dal lettore Francesco Tripepi.
Ringrazio il lettore Francesco Tripepi per il tempo dedicatomi e per l'ottima recensione da lui scritta relativamente alla mia ultima fatica letteraria. Cordialmente vostro, Francesco Toscano.Egregio autore,vorrei complimentarmi con lei per la splendida opera che ho potuto leggere appassionatamente in un solo respiro, come di solito faccio quando trovo quei libri che mi piacciono. La piacevole lettura è stata agevolata dalla storia che lega i vari personaggi del suo libro, che sono caratterizzati in maniera splendida. Mi hanno destato fervido interesse, in particolar modo, la caratterizzazione di Turiddu e della povera Sara ma se devo essere sincero mi hanno molto affascinato i luoghi in cui le loro vite sono descritte, che sono così tanto specificizzati da incuriosire la mia sete di conoscenza. In ultimo, auspico che a breve i suoi sforzi siano incentrati in una nuova opera letteraria che spero sia permeata dallo stesso amore e fantasia con cui si è prodigato in questo libro.
Distinti Saluti.
venerdì 9 maggio 2014
Festeggiamenti in onore del SS. Crocifisso di Monreale (Pa), anno 2014. Le foto del 3 maggio 2014.
La Banda Musicale dell'Arma dei CC. |
è questo un momento di forte richiamo e di grande commozione. Quando il Crocifisso è fatto scendere dall'altare ed è adagiato sullo zoccolo della "Vara", le ferite del costato sacro sono palpeggiate di continuo dai fazzoletti dei fedeli. Scoppi di pianto accompagnano questo succedersi disordinato di carezze, e un tremito nervoso serpeggia anche nei più forti di spirito soggiogati da quella fede che scuote ogni dubbio. Le scene sono ancora quelle descritte nel secolo scorso dal Pitrè: "…i sottostanti fanno ressa per salire anche loro, ma non trovano spazio per mettere un piede… ".L'effige del Crocifisso è poi collocata all'esterno della chiesa, sotto la maiolica che raffigura il protettore di Monreale, da dove alle ore 18.00 in punto, al suono del campanello e al rullo dei tamburi, accompagnato dal suono festoso delle campane a distesa, si dà il via alla solenne processione. Dalle ore 14.00 fino alle ore 18.00, i fedeli si accalcano presso la Maiolica, per toccare, baciare e pregare il Crocifisso, prima che inizi la processione. Fazzoletti bianchi, rossi, turchini volano dal basso verso l'alto e dall'alto verso il basso, lanciati dalla folla che li passa alle persone vicine al Cristo, le quali li raccolgono e palpano con essi delicatamente le membra adorate, poi li ripassano alla folla, che con le mani in aria, li coglie al volo, stringendole al petto ed accarezzandosi il viso, gridando:
La Banda Musicale dell'Arma dei CC . |
Membri della Confraternita del SS. Crocifisso. |
Due confratelli con un cuscino di rose che formano una complessa decorazione concentrica; essa sarà poi depositata ai piedi del simulacro. |
La processione si snoda lenta per il corso principale della città: è una marea di ceri accesi che avanza tra lo sfolgorio di luci, la pioggia di petali di rose e lo scampanio festoso delle campane di tutte le chiese. Alla processione non partecipa soltanto il popolo, ma per un lungo tratto anche le autorità civili e religiose tra cui il sindaco, l'Arcivescovo, i comandanti rispettivamente dell'Arma dei Carabinieri e della Polizia Municipale, e buona parte del clero. Nonostante le condizioni del tempo lasciassero intravedere la possibilità di un rinvio, coraggiosamente e inaspettatamente, i “Fratelli” hanno deciso di iniziare, puntuali, la marcia con il Crocifisso in spalla. Le condizioni meteo quest'anno non hanno fatto presagire nulla di buono già dalla discesa del SS Crocifisso dalla gradinata del Santuario, avvenuta alle 14.00 e durante la quale i primi piccoli scrosci di pioggia avevano iniziato a bagnare il Simulacro. E’ stata una processione un po’ particolare quest’anno, in cui i ceri in mano ai fedeli si sono trasformati, d’un tratto, in tanti ombrelli colorati.
Alcuni membri della Confraternita. |
Il SS. Crocifisso in processione. |
Il SS. Crocifisso in sosta. |
Il SS. Crocifisso in processione per le strade di Monreale (Pa). |
La processione parte alle ore 18.00 del 3 maggio e termina alle ore 2.00 circa del giorno successivo. Durante la stessa, momenti commoventi sono, il bacio dei bambini dato al simulacro in tutte le soste, e lo sfiorare coi fazzoletti e con i fiori l'effige del SS. Crocifisso. Durante questa festa non si possono distinguere luoghi particolarmente interessati da questa cerimonia, poiché tutto il paese di Monreale è in festa, ed è per gran parte del paese che il Crocifisso passa durante la processione. Una folla, di circa 3.000 persone, annualmente segue il simulacro in processione, fedeli, che sin dalle prime luci dell'alba si preparano al solenne ed atteso "viaggio". Momento di grande attrazione, misto di fede e folklore è l'arrivo allo "Spasimo"; dopo la difficile "scinnuta", il Crocifisso, posto al centro della piazza con il volto proteso verso la Conca d'Oro, estende la sua benedizione al territorio sottostante, un tempo rigoglioso di campagne e di vita, per numerose famiglie. I giochi pirotecnici nella piazza completano un momento di grande festa ed esultanza verso la venerata immagine.
- http://www.monrealenews.it/index.php/cronaca/cronaca-varia/9466-festa-del-ss-crocifisso-i-ringraziamenti-del-comitato-organizzatore;
- http://www.crocifissomonreale.it/la_festa_del_3_maggio.htm;
- http://www.filodirettomonreale.it/cronaca/la-processione-del-ss-crocifisso-sotto-la-pioggia-la-grande-fede-dei-monrealesi-2014/05/04.html.
martedì 6 maggio 2014
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Buonasera! Oggi mi pregio di pubblicare la recensione del romanzo giallo "L'infanzia violata", dello scrivente Francesco ...
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Il blogroll dei miei blog preferiti
La storia dei blog e di "Sicilia, la terra del Sole."
La storia del blog nasce nel 1997 in America, quando lo statunitense Dave Winter sviluppò un software che permise la prima pubblicazione di contenuti sul web. Nello stesso anno fu coniata la parola weblog, quando un appassionato di caccia statunitense decise di parlare delle proprie passioni con una pagina personale su Internet. Il blog può essere quindi considerato come una sorta di diario personale virtuale nel quale parlare delle proprie passioni attraverso immagini, video e contenuti testuali. In Italia, il successo dei blog arrivò nei primi anni 2000 con l’apertura di diversi servizi dedicati: tra i più famosi vi sono Blogger, AlterVista, WordPress, ma anche il famosissimo MySpace e Windows Live Space. Con l’avvento dei social network, tra il 2009 e il 2010, moltissimi portali dedicati al blogging chiusero. Ad oggi rimangono ancora attivi gli storici AlterVista, Blogger, WordPress e MySpace: sono tuttora i più utilizzati per la creazione di un blog e gli strumenti offerti sono alla portata di tutti. Questo blog, invece, nasce nel 2007; è un blog indipendente che viene aggiornato senza alcuna periodicità dal suo autore, Francesco Toscano. Il blog si prefigge di dare una informazione chiara e puntuale sui taluni fatti occorsi in Sicilia e, in particolare, nel territorio dei comuni in essa presenti. Chiunque può partecipare e arricchire i contenuti pubblicati nel blog: è opportuno, pur tuttavia, che chi lo desideri inoltri i propri comunicati all'indirizzo di posta elettronica in uso al webmaster che, ad ogni buon fine, è evidenziata in fondo alla pagina, così da poter arricchire la rubrica "Le vostre lettere", nata proprio con questo intento. Consapevole che la crescita di un blog è direttamente proporzionale al numero di post scritti ogni giorno, che è in sintesi il compendio dell'attività di ricerca e studio posta in essere dal suo creatore attraverso la consultazione di testi e documenti non solo reperibili in rete, ma prevalentemente presso le più vicine biblioteche di residenza, mi congedo da voi augurandovi una buona giornata. Cordialmente vostro, Francesco Toscano.