Gilgamesh, Re di Uruk (Fonte: it.wikipedia.org) |
In tali documenti si narra dell'epopea di Gilgamesh, reperti portati alla luce in centinaia di siti archeologici in Mesopotamia. L'Epopea di Gilgamesh raccoglie tutti quegli scritti che hanno come oggetto le imprese del mitico re di Uruk ed è da considerarsi il più importante dei testi mitologici babilonesi e assiri pervenuti fino a noi. Di quest'opera noi possediamo, oltre all'edizione principale allestita per la biblioteca del re Assurbanipal e ora conservata nel British Museum di Londra, altre versioni più antiche e frammentarie. Tutti i popoli che sono venuti a contatto con il mondo sumerico hanno avvertito la grandezza dell'ispirazione, tanto è vero che tavolette cuneiformi con il testo di Gilgameš sono state trovate in Anatolia, scritte in ittita e hurrita, e in Siria-Palestina. I testi più antichi che trattano le avventure dell'eroe appartengono alla letteratura sumerica e scene dell'epopea si ritrovano, oltre che su vari bassorilievi, su sigilli cilindrici del III millennio a.C.. Gilgamesh è il re sumero della città di Uruk. Guerriero crudele, è per due terzi divino e per un terzo mortale e tiene sotto il suo dominio un popolo sempre più stanco delle sue prepotenze e ingiustizie. Gli dèi, dunque, per punirlo, decidono di creare un uomo in grado di contrastarlo, Enkidu. Egli è primitivo e rozzo, plasmato dall'argilla e descritto nell'epopea come selvaggio sia nel fisico che nei comportamenti. I due si scontrano, come previsto, ma lo scontro finisce alla pari. Colpito dalla forza di Enkidu, Gilgamesh stringe con lui un patto d'amicizia. Decidono di andare insieme alla Foresta dei Cedri per prelevare il prezioso legno di questi alberi. Alla guardia della foresta c'è però un mostro, che i due riescono a sconfiggere senza grossi problemi. Accresciuta ulteriormente la sua fama e l'amicizia con Enkidu, Gilgamesh viene corteggiato da Ishtar (la dea della bellezza e della fecondità, ma anche della guerra e della distruzione), che lo vorrebbe come sposo, estasiata dalle sue doti di guerriero e dalla sua fama. Gilgamesh però la rifiuta, visto il triste destino dei passati amanti della dea, come Dumuzi, e Ishtar, con l'aiuto di Anu (il dio del Cielo e padre di Ishtar stessa) invia contro i due amici un ferocissimo toro divino di colore blu.
Nel combattimento che ne consegue, Enkidu blocca il selvaggio animale e Gilgamesh gli infila la spada tra le corna, uccidendolo. Oltraggiata ancora di più, Ishtar fa morire Enkidu con una brutale malattia, che gli fa patire una morte lenta e atroce. Gilgamesh scopre così per la prima volta il dolore per la perdita di un caro amico, e rimane molto scosso. Decide dunque di intraprendere un viaggio alla ricerca del senso della vita e del segreto dell'immortalità. Viene a sapere dell'esistenza di un uomo a conoscenza di questo segreto: Utanapishtim, un uomo molto vecchio e saggio che scampò, grazie all'aiuto di Enki, al diluvio universale, e a cui gli dèi fecero il dono dell'immortalità. Egli vive isolato al di là dell'oceano della Morte e, dato il grandissimo segreto che conosce, la sua casa è raggiungibile solo dopo aver superato molti ostacoli. Gilgamesh riesce a superare ogni prova, tra cui gli uomini scorpione, posti a guardia dei monti Mashu, e giunge in un bellissimo giardino dove una donna gli implora di fermarsi e non proseguire. Il valoroso re non cede alle richieste e sceglie di andare avanti, giungendo finalmente nel luogo dove vive Utanapishtim. La delusione di Gilgamesh è, però, grande: il saggio gli risponde che la morte è inevitabile per l'uomo che, prima o dopo, dovrà lasciare questo mondo. Gilgamesh, ormai senza speranze, sta per andarsene quando Utanapishtim, impietosito, gli rivela che c'è un'unica possibilità per l'eterna giovinezza: è una pianta che si trova in fondo al mare. Gilgamesh parte subito alla ricerca del prezioso vegetale e, dopo averlo trovato, decide di riposarsi sulle rive di un ruscello. Al suo risveglio, scopre che la pianta tanto preziosa è stata mangiata da un serpente, che dopo averla mangiata ha cambiato pelle. Sconfitto, torna così ad Uruk, la sua città. Nel finale il testo originale è ricco di lacune, dovute certamente alla mancanza di alcune tavolette, andate ormai perdute. Recentemente sono però state trovate altre tavolette che raccontano del suicidio di Gilgamesh insieme alla sua corte. Altro episodio, del quale però non si capisce la giusta collocazione all'interno del poema, è il seguente: Gilgamesh prega il dio degli inferi di fargli rivedere Enkidu per un'ultima volta. Il desiderio viene esaudito e l'anima di quest'ultimo si presenta a Gilgamesh. Enkidu rivela al suo grande amico che la vita nell'oltretomba è triste e cupa, piena di rimpianti per tutto ciò che non si è fatto nella vita terrena e per le occasioni che si sono perse. Gli consiglia pertanto di lasciar stare in pace i morti e di godersi la vita finché possibile, dato che nell'oltretomba l'esistenza sarà piatta e senza felicità. Le uniche persone che potranno godere di un'esistenza dignitosa nell'aldilà sono coloro che hanno generato numerosi figli, specchio della concezione secondo cui l'unico modo di vivere in eterno è quello di lasciare una discendenza. Gli autori dell'epopea di Gilgamesh, assai simile alla Genesi della Bibbia, sono vissuti duemila anni prima degli autori della Bibbia. Gilgamesh, l'eroe dell'epopea, era un misto di dio e di uomo. La settima tavola narra un fatto straordinario: Enkidu, un'amico dell'eroe, ci potrebbe infatti fornire la prima testimonianza oculare di un volo spaziale. Ad Enkidu, infatti, salito in dodici ore nello spazio, a bordo di un bronzeo velivolo celeste, gli chiedono: "Guarda giù la Terra, come ti appare? Osserva il mare, che te ne sembra?" Ed egli risponde:"La Terra appariva come una farinata, ed il mare come una pozza d'acqua." Non diversamente gli astronauti americani hanno descritto l'aspetto della terra vista dal suolo lunare. Una coincidenza?
Continua..al prossimo post!
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